Le tre età della vita interiore (terza parte) – di Padre Garrigou-Lagrange Op. La speranza cristiana possiede due qualità: deve essere laboriosa per evitare la presunzione che aspetta senza faticare la ricompensa divina e deve essere fermissima e invincibile per evitare lo scoraggiamento.
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Ci sono due difetti da evitare, sostiene Padre Garrigou-Lagrange OP nel terzo volume de Le tre età della vita interiore. La via illuminativa dei proficienti (Edizioni Viverein), un’opera nel suo complesso straordinaria e di cui abbiamo avuto modo di parlare nei due Scriptorium precedenti (29 aprile – 20 maggio 2017): la presunzione e lo scoraggiamento, ambedue nemici della speranza cristiana, la quale «si erge in alto come una vetta in mezzo a queste deviazioni contrarie» (p. 217). La presunzione, dice il teologo domenicano, o si appoggia troppo sulle proprie forze, come i pelagiani, senza chiedere sufficientemente il soccorso a Dio, senza avere bene in mente la necessità della grazia per ogni atto salutare; oppure si aspetta, come accade alla Chiesa di Papa Francesco, adeguatasi supinamente alle condizioni del mondo contemporaneo, «dalla misericordia divina ciò che Dio non potrebbe accordare, come sarebbe il perdono senza vera penitenza, oppure la vita eterna senza alcuno sforzo per meritarla» (p. 218). Questo insegnamento, che viene direttamente da Nostro Signore Gesù Cristo, non deve essere mai dimenticato perché su di esso si fonda la nostra salvezza in terra e in Cielo.
Queste due forme di presunzione sono contrarie fra di loro, poiché la prima poggia sulle proprie forze e l’altra, invece, «aspetta da Dio quello che egli non ha permesso» (ibidem). Sovente, poi, quando arriva la prova, i presuntuosi cadono nel difetto contrario, ovvero nello scoraggiamento, come se il bene difficile, bonum arduum, oggetto della speranza cristiana, divenisse irraggiungibile. Tale scoraggiamento, spesso, conduce alla pigrizia spirituale, ossia all’accidia, vizio che fa considerare come troppo difficile e quindi inaccessibile il lavoro della santificazione. Con ciò si giunge alla disperazione, atteggiamento molto diffuso oggi fra i cattolici che resistono alle derive postconciliari. «Molte sono le anime che oscillano in tal modo tra la presunzione e lo scoraggiamento, e che non giungono mai, almeno praticamente, a farsi un vero concetto della speranza cristiana ed a viverne come dovrebbero» (ibidem).
Della speranza cristiana se ne parla molto poco, tuttavia è una virtù teologale e come tale è di capitale importanza. Essa «come virtù infusa e teologale, è essenzialmente soprannaturale, e quindi sorpassa di gran lunga il desiderio naturale d’essere felici, ed anche quella fiducia naturale in Dio che potrebbe nascere dalla conoscenza naturale della bontà divina» (ibidem). Proprio grazie a questa virtù infusa, noi tendiamo alla vita eterna. Non ci basta vivere qui, sentiamo il richiamo irresistibile di vivere per sempre. E aspiriamo ad una vita di beatitudine soprannaturale e non terrena, che non è altro «che il possesso di Dio: vedere Dio in modo immediato, come egli vede se stesso, amarlo come egli ci ama. E tendiamo verso di lui poggiando sul soccorso divino che ci ha promesso» (ibidem). Il motivo della speranza non è il nostro sforzo, bensì Dio che sempre viene in nostro soccorso se invocato e onorato, rispettando le Sue leggi «secondo la sua misericordia, le sue promesse, la sua onnipotenza» (p. 219).
In che modo dobbiamo sperare in Dio per evitare la presunzione e lo scoraggiamento?
Il Concilio di Trento risponde in maniera inequivocabile:
«Tutti devono avere una fiducia fermissima nel soccorso di Dio. Se gli uomini non vengono meno alla grazia divina, Dio stesso che ha incominciato in noi l’opera della salvezza, la compirà, operando in noi il volere e il fare (Fil 2, 13). Tuttavia, chi crede di essere in piedi stia attento a non cadere (1 Cor 10, 12), e lavori alla propria salvezza con timore e tremore (Fil 2, 12), nelle fatiche, nelle veglie, nelle preghiere, nelle elemosine e nei digiuni, con la purezza (2 Cor 6, 3)…, secondo la parola dell’Apostolo: “Se vivete secondo la carne, morrete; ma se per mezzo dello Spirito farete morire le opere della carne, voi vivrete (Rm 8, 12)» (p. 221).
Oggi vivere secondo la carne è diventato uso comune e abituale, talmente abituale che insorge la noia, ecco che le perversioni si diffondono, grazie anche all’intervento delle politiche femministe, abortiste, omosessualiste e anche grazie, purtroppo, alla permissivista e lassista Chiesa della misericordia.
La speranza cristiana, ci ricorda ancora Padre Garrigou-Lagrange, possiede due qualità: deve essere laboriosa per evitare la presunzione che aspetta senza faticare la ricompensa divina e deve essere fermissima e invincibile per evitare lo scoraggiamento. Dunque la speranza cristiana è in se stessa laboriosa perché tende verso un bene possibile, ma difficile. È necessario quindi lavorare alla propria salvezza per conservare in sé una viva speranza e non una vana presunzione. Lavorare in spirito di umiltà e di abnegazione per conservare in noi un vivo desiderio della vita eterna, desiderio di Dio, nostra beatitudine, un desiderio il cui ardore sarebbe distrutto dalla vivacità dei desideri contrari, come quello dei piaceri terreni e dell’ambizione. «Ora, questo vivo desiderio del cielo e di Dio è purtroppo raro anche tra i buoni cristiani. Eppure, se v’è un oggetto che dovremmo desiderare con santo ardore, non è forse l’unione divina?» (p. 222). Se questo diventasse il nostro desiderio più grande vivremmo realizzati già su questa terra, in pace con noi stessi perché in pace con il nostro Padre celeste. E gli altri vedrebbero in noi tale pace: molti ci invidierebbero, qualcuno (forse) ci imiterebbe.
La speranza laboriosa insieme al dono del timore del peccato evita la presunzione. Nella nostra vita ci sono due serie parallele di fatti quotidiani: quella degli avvenimenti esteriori che si susseguono dalla mattina alla sera, e quella delle grazie che ci vengono accordare istante dopo istante al fine di trarre maggior vantaggio spirituale sia da quelli piacevoli che da quelli penosi perché, come afferma san Paolo «per quelli che amano Dio, tutto concorre al loro bene» (Rm 8, 28), anche le noie, gli insuccessi, le contraddizioni, che sono altrettante occasioni per elevare la nostra anima, il nostro cuore a Dio in spirito di fiducia in Lui. Proprio come dice san Francesco di Sales: «Anche se non si senta questa confidenza in Dio, non bisogna però cessare di farne gli atti. La diffidenza di noi stessi e delle nostre forze deve accompagnarsi con l’umiltà e con la fede, le quali ottengono la grazia della fiducia in Dio. Più siamo infelici e più dobbiamo avere fiducia in colui che vede il nostro stato e che può soccorrerci! Nessuno confida in Dio senza ritrarre frutti dalla sua speranza. L’anima deve restare calma e appoggiarsi a colui che può dare accrescimento a ciò che è stato seminato e piantato. Non dobbiamo cessare di lavorare, ma, pur lavorando, conviene confidare interamente in Dio per il successo delle nostre fatiche» (p. 227).
Dopo la lettura del primo, del secondo e del terzo volume de Le tre età della vita interiore, il lettore avrà in pugno le armi per combattere contro le pazzie e le autodistruzioni del mondo e ambirà a purificare mente e cuore, serenamente pronto a confidare in Colui che tutto può. Affermava santa Caterina da Siena: «Non considerate mai le vostre colpe passate che sotto il raggio luminoso della misericordia infinita, affinché il loro ricordo non vi faccia perdere d’animo, ma vi conduca a mettere la vostra fiducia nel valore infinito dei meriti del Salvatore» (p. 224); mentre san Filippo Neri usava dire: «Vi ringrazio di cuore, Signor mio, che le cose non vanno a modo mio, ma come le volete voi; è meglio che vadano a modo vostro, perché è, senza dubbio migliore del mio» (p. 226). Quel “modo” che condurrà, chi ama veramente la Santissima Trinità, alla gioia perfetta.
Buona Pentecoste!
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(3 – continua)
1 commento su “Scriptorium – Recensioni. Rubrica quindicinale di Cristina Siccardi”
Forse vale la pena di ricordare che p. Réginald Marie Garrigou-Lagrange, O.P. fu colui che denunciò per primo la “Nouvelle théologie”, di cui i massimi esponenti furono i gesuiti p. Henri De Lubac e p. Hans Urs v. Balthasar e che trionfò al Vaticano II. Ciò fece con un articolo dal titolo “La nouvelle théologie où va-t-elle?” (« Angelicum », XXIII (1946), fasc. 3/4, p. 126-145); la risposta da lui data al quesito espresso nel titolo fu: “vers le Modernisme”. In conseguenza di questa denuncia, Pio XII pubblicò l‘Enciclica Humani generis.