di Davide Greco
fonte: Corrispondenza Romana
È facile parlare di tolleranza e, forti di questo argomento, zittire la controparte. Si tratta di un modo usato sempre più di frequente, specie quando i cattolici osano difendere i loro valori fondamentali. L’ultimo esempio? L’aggressione delle Femen all’arcivescovo Léonard.
Anche quelli che si definiscono tolleranti possono, di fatto, precipitare nell’intolleranza.
Questa semplice frase potrebbe non essere solo un facile e comodo gioco di parole. Ma è quello che vediamo accadere sempre più spesso.
Ha fatto molta impressione in questi giorni l’aggressione all’arcivescovo di Malines-Bruxelles, mons. André Léonard, durante un convegno sulla libertà di espressione. Quattro Femen lo hanno insultato appena ha iniziato a parlare, lo hanno vilipeso e imbrattato con la loro “acqua santa”. L’arcivescovo, con un contegno esemplare, si è distaccato con la preghiera mentre le Femen continuavano a gridargli addosso “omofobo”. Fino a quando non sono state allontanate.
Il gesto ha tutto il sapore della metafora contemporanea. Il mondo insulta e la Chiesa si ritira in preghiera, sperando che il momento passi. Invece, potrebbe non passare tanto rapidamente.
Il problema è come leggere quanto accaduto. Se molti lo interpreteranno come “hanno aggredito un intollerante”, la frittata è fatta. Pur con tutti i però del caso. Però hanno esagerato, però non dovevano farlo così, però però. Però hanno aggredito un intollerante che se lo meritava. Delle buone eroine dei diritti civili, che difendono i gruppi discriminati, hanno contestato un cattivo e oscurantista sacerdote omofobo. Quindi potevano permettersi di tutto.
D’altronde col suo essere sacerdote oggi, mons. Léonard è esponente delle Crociate di ieri, dell’Inquisizione e, perché no?, anche del Nazismo. Sono andato troppo oltre?
Non credo, visti i commenti che di solito si fanno in questi casi. Commenti generati dall’aggiunta di stereotipi storici, messi uno sull’altro. Ma uno in particolare è lo stereotipo principe, almeno in questo momento.
Quello che porta a considerare tutti i cattolici come degli omofobi, quando è palesemente falso. Quella cattolica è la difesa verso la famiglia tradizionale, il nucleo sociale minimo o “cellula fondamentale dello stato” come la definì Paolo VI [Humanae Vitae, 23], non un attacco all’omosessualità in generale.
Qualcuno, però, vuol far passare il messaggio per il quale sostenere un proprio valore sia discriminante verso tutti gli altri. Il claim potrebbe essere più o meno questo: se credi in qualcosa sei un razzista. Ovviamente questo vale solo per i cattolici, che sono cattivi. Quando invece parlano gli omosessuali, che sono buoni ontologicamente, la difesa di un loro valore non è mai discriminazione, ma “diritto”. Anche quando pretendono di squalificare un modello famigliare che, bontà sua, ha garantito la coesione sociale in tutti il mondo e per millenni.
Questo strano modo di pensare che, per includere democraticamente la minoranza omosessuale, è pronta a escludere repressivamente dal dibattito politico tutti i cattolici, è possibile solo grazie ad un gioco di prestigio. Il gioco prevede che tutti i valori abbiano lo stesso valore (mi si scusi il bisticcio), come se in un mazzo ci fosse solo una carta ripetuta 52 volte. Dopo di che estrarre una o l’altra non fa nessuna differenza e chiunque può fare il mago. Ma quando non è più importante il “cosa”, diventa fondamentale il “chi” la estrae. Se la estrae un cattolico, la carta è sbagliata a prescindere, anche perché si ostina a dirmi che non è vero che tutte le carte sono uguali. Se la estrae chiunque altro, allora è giustissima.
In un clima così non è più possibile parlare di nulla. Perché ogni sacerdote che difende la famiglia diventa automaticamente omofobo, ogni cattolico diventa automaticamente un razzista verso gli omosessuali. Lo stereotipo è in grado di fare questo. Ma è un ragionamento molto pericoloso, che porta immediatamente all’intolleranza, all’insofferenza verso tutto ciò che è in odore di Chiesa.
Ed è anche un modo per squalificare a priori ogni accenno di discussione. Già, perché prima di parlare, ogni singolo cattolico è costretto a giustificarsi, a spiegare perché ha il diritto di intervenire nel dibattito, ad allontanare da sé il sospetto di omofobia. In un’ipotetica disputa, tre quarti di una discussione saranno occupati già solo dalla difesa. L’altro quarto dalle risposte alle polemicheche nel frattempo qualcuno avrà fatto. Totale: non c’è stato nessun dialogo.
E facilmente a nessuno verrà in mente che è impossibile dialogare in questi termini, ma subito si concluderà che il cattolico è inconcludente, arroccato, omofobo (perché dovrebbe giustificarsi se, sotto sotto, non lo fosse?).
Il passaggio successivo può essere solo uno: evitiamo di considerare i cattolici come interlocutori. Tanto, a) non ci serve il loro punto di vista non-laico, b) non si può far parlare un razzista.
Ogni riflessione diventerebbe un processo di Norimberga.
Ma il cattolico non è razzista, anche se molti si compiacciono di avere questa opinione. Lo è chi, dall’alto della sua tolleranza, non tollera un’intera fetta di popolazione. Nemmeno quando esprime, con toni pacifici, valori che ritiene fondamentali.