Canto IX del Purgatorio. Leggiamo un episodio particolarmente significativo, perché, nel giro di una sessantina di versi, il Poeta ci dà esaurienti e giuste informazioni sul sacramento della Confessione, sulla figura del sacerdote confessore e su quella del penitente, sull’esatto valore dei concetti di penitenza e di misericordia.
di Dario Pasero
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Uno degli aspetti tra i più importanti dell’opera di Dante è la volontà, e ovviamente anche la capacità, del poeta di insegnarci (e infatti il suo testo rientra nella categoria dei poemi epico-didascalici) quelle nozioni catechetiche che – un tempo – costituivano la base della formazione dottrinale dei cristiani, che cominciava col catechismo per la prima Comunione per continuare poi con le prediche settimanali di formazione morale e teologica, proprio quelle che ora molti parroci, purtroppo, stanno sempre più trascurando, attratti da altri metodi “pastorali”, più “inclusivi” e vicini ad una mentalità “moderna”.
Lasciamo però ora le “dolenti note” e vediamo almeno un episodio (ma altri ce ne sono) in cui Dante riesce a spiegarci in modo efficace, servendosi di immagini simboliche e figurali, alcune verità della Fede o aspetti della liturgia. Questo episodio è particolarmente significativo perché nel giro di una sessantina di versi il Poeta ci dà esaurienti e giuste informazioni sul sacramento della Confessione, sulla figura del sacerdote confessore e su quella del penitente, sull’esatto valore dei concetti di penitenza e di misericordia.
Intanto, il contesto.
Siamo nel canto IX del Purgatorio: ricordiamo sia che il numero nove, essendo il quadrato di tre (numero della Trinità), è un numero particolarmente significativo nel simbolismo cristiano di Dante (escludiamo qualunque valore magico o esoterico, secondo l’interpretazione di René Guénon, L’esoterismo di Dante, testo edito nel 1925), sia che, giusta la “geometria” strutturale dell’opera dantesca, che vuole rappresentare episodi o personaggi tra loro avvicinabili in canti reciprocamente congruenti, anche il canto IX dell’Inferno ci presenta una porta sbarrata, e custodita dai diavoli, quella della città di Dite, porta che verrà aperta grazie all’intervento di un angelo. Allo stesso modo il medesimo canto del Purgatorio (il IX) ci presenta un’altra porta sbarrata, ma custodita da un angelo, e che verrà aperta grazie alla bontà del guardiano stesso, e non per un’imposizione “dall’alto”.
Il canto IX, visto nella sua interezza, si suddivide in vari momenti, che preparano, in un’atmosfera di sogno ma anche di rigore logico e morale, la parte conclusiva, cioè appunto quella dedicata alla porta ed all’angelo guardiano.
Si comincia, come spesso nella Commedia, ed in particolare quando il poeta vuole attirare l’attenzione del lettore su di un episodio particolarmente importante, con la definizione dell’ora del giorno: è quasi l’alba quando Dante si addormenta ai limiti dell’ultima sezione dell’anti-purgatorio, cioè la valletta dei principi, in compagnia non solo di Virgilio ma anche delle anime dei signori che lo stanno accompagnando (vv. 1-12). Dante, dopo averci ricordato – secondo la convinzione classica – che, essendo ormai quasi mattina, i sogni sono più veritieri, ci narra il suo sogno: appena addormentato, è stato rapito da un’aquila d’oro e portato fino al cerchio del fuoco, dove egli e l’aquila (chiaro simbolo di Dio) iniziano a bruciare (vv. 13-33); la sensazione di caldo bruciante, provocata dal sognare il fuoco, lo risveglia ed egli si paragona, per lo stupore e la paura provati a non trovarsi più nello stesso luogo in cui si era addormentato, ad Achille risvegliatosi nell’isola di Sciro. È, questa, la terza immagine mitologica, dopo quella dell’Aurora e di Ganimede, nel giro di pochi versi: ed anche questo tornare con insistenza su temi classico-mitologici vuol sottolineare l’importanza dell’episodio che si sta per narrare. Virgilio a questo punto lo conforta e gli spiega il sogno: egli è stato sollevato, mentre dormiva, e portato fin lì in volo da Santa Lucia, che ha poi mostrato ai due poeti la porta del Purgatorio (vv. 34-69).
Termina qui la prima fase, preparatoria, del canto ed a questo punto Dante, per introdurre la seconda, e ben più importante, sente la necessità di rivolgersi direttamente al lettore, invitandolo a notare come egli innalzerà lo stile della narrazione per adeguarsi all’elevatezza della materia trattata (vv. 70-72). Siamo alla metà esatta del canto (altro elemento strutturale degno di attenzione) ed eccoci all’episodio della porta del Purgatorio. Di lontano a Dante sembra di scorgere una spaccatura nella montagna, ma, avvicinandosi, si accorge che non di una semplice spaccatura si tratta, bensì di una vera e propria porta, a cui si accede attraverso tre scalini, custodita da un angelo con in mano una spada sguainata (vv. 73-84). L’angelo si rivolge ai due poeti e, dopo aver ascoltato la risposta di Virgilio che ricorda la protezione loro accordata da Santa Lucia, li invita ad avvicinarsi alla porta (vv. 85-93). Seguono: la descrizione degli scalini, della porta e dell’angelo, su cui tra breve ci soffermeremo (vv. 94-129), l’apertura della porta stessa e l’ingresso dei due poeti nel Purgatorio (vv. 130-145).
Venendo dunque alla parte centrale dell’episodio, quella catechetica relativa alla Confessione, rappresentata dalla porta con tutti i suoi annessi, vediamo innanzitutto che per giungere alla porta stessa si devono percorrere (ed è ciò che Dante fa) tre scalini, diversi tra di loro sia per materiale che per colore. Essi rappresentano, simbolicamente, i tre momenti su cui si struttura il sacramento della Confessione.
Il primo di essi è di marmo bianco, così “pulito e terso”, cioè così levigato e lucido, che Dante vi si può addirittura specchiare (“ch’io mi specchiai in esso qual io paio”, v. 96): esso rappresenta il primo momento del sacramento, cioè la “contritio cordis”, quella che viene anche detta “esame di coscienza”, quando cioè il peccatore guarda dentro di sé come in uno specchio per ricordare e chiarirsi i peccati di cui si sente colpevole.
Il secondo è costituito da “una petrina ruvida e arsiccia”, di colore “tinto più che perso”, non solo ma anche crepato “per lo lungo e per traverso” (vv. 97sgg.). Vale a dire che si tratta di una pietra quasi certamente di tipo lavico, bruciacchiata e ruvida, il cui colore è nero (tinto) più che non scuro (perso, cioè, come anche altrove nel poema, di un indefinito colore tra il porpora, il marrone ed il nero), solcato per di più da screpolature sia in senso orizzontale che in verticale. Ecco il secondo momento della Confessione, quando il penitente confessa (confessio oris) i suoi peccati al sacerdote confessore. Il colore dello scalino quindi rimanda alla vergogna per le colpe e la sua ruvidità, unita con le screpolature, al senso di colpa che alberga ancora nella coscienza.
Infine, il terzo scalino che ci viene presentato al v. 100 come una struttura pesante e grave, “che di sopra s’ammassiccia” (notiamo che il verbo “ammassicciarsi” è un hapax, cioè una parola usata una sola volta, qui, nell’intero poema), è di porfido di color così “fiammeggiante” da sembrare sangue fresco che esca da una ferita. Rosso sangue, dunque, e di pietra molto resistente e dura. Abbiamo in esso rappresentato il terzo momento della Confessione, la satisfactio operis (quella che un tempo veniva definita anche la “penitenza”). Il rosso rappresenta, oltre che la vergogna, anche l’ardore di carità che sgorga dalla gioia di essere liberati dai peccati, mentre il porfido rimanda alla saldezza del proponimento di non più peccare.
Dopo i tre gradi attraverso cui il penitente deve salire per ottenere il perdono, la rappresentazione simbolica del Sacramento continua. Abbiamo infatti ancora, al di sopra degli scalini, la soglia, cioè quella “striscia” che delinea e delimita il passaggio attraverso la porta. Nel nostro episodio essa è di “pietra di diamante” (v. 105) a rappresentare, anch’essa, la solidità dei proponimenti verso il bene del penitente dopo la Confessione. A dominare tutta la rappresentazione c’è l’angelo (il sacerdote confessore), rappresentato con una spada in mano, vale a dire l’autorità del confessore, e vestito di una sorta di saio il cui colore ricorda “cenere, o terra che secca si cavi” (v. 115). Un colore dunque tra il marrone ed il grigio che ricorda la penitenza e, secondo alcuni commentatori, anche il saio francescano, simbolo quindi di umiltà.
A questo punto Dante, su invito di Virgilio, si prostra umilmente davanti all’angelo per chiedergli che apra la porta (“il serrame”, v. 108), unendo alla richiesta il gesto del percuotersi per tre volte il petto, come segno di pentimento dei propri peccati – il “mea culpa” – e precisamente per “pensieri, parole ed opere” (cogitatione, verbo et opere). È a questo punto che l’angelo trae di sotto all’abito due chiavi, una d’oro e l’altra d’argento, dichiarando trattarsi delle chiavi a lui consegnate da Pietro. A proposito di queste chiavi Dante (e noi con lui) riceve, da parte dell’angelo, due precisazioni.
La prima di esse riguarda il fatto che Pietro, consegnandogli le chiavi, lo ha invitato alla misericordia, ordinandogli che, dovesse mai sbagliare nell’uso delle chiavi, lo faccia, diciamo così, “per eccesso” piuttosto che “per difetto”: sbagliare cioè facendo entrare un peccatore in più piuttosto che uno in meno, ma – ecco il punto fondamentale – solamente a patto che il peccatore “a’ piedi mi s’atterri” (v. 129). Insomma, il peccatore deve dimostrarsi veramente pentito prima di chiedere misericordia: non una “misericordia” d’accatto, dunque, quale quella, buona per tutte le stagioni, di cui ormai troppi (riferendosi a persone anche molto in alto nella gerarchia ecclesiastica) si riempiono, talora a proposito e, più spesso, a sproposito la bocca.
Riguardo poi ai materiali di cui le due chiavi sono fatte l’angelo aggiunge ancora che quella d’oro è più preziosa perché rappresenta il potere datogli da Pietro (che lo ha ricevuto direttamente da Nostro Signore) di rimettere i peccati, mentre quella d’argento, meno preziosa in quanto a materiale, è però più necessaria per la funzione cui è destinata perché rappresenta la dottrina, l’esperienza ed il discernimento del confessore nel conoscere la natura dei peccati e quindi nel poterli perdonare con le adeguate penitenze. Essa è, dunque, quella delle due “che ’l nodo digroppa” (v. 126). Non solo, ma l’una senza l’altra non serve a nulla: la porta si apre solamente quando entrambe girano bene nella toppa (“Quandunque l’una d’este chiavi falla,/ che non si volga dritta per la toppa,/ diss’elli a noi, non s’apre questa calla”, vv. 121sgg.). Fuori di simbolo, il confessore deve possedere in egual misura, oltre al potere di rimettere i peccati, dottrina ed esperienza.
L’episodio e il canto si chiudono con l’apertura (scusate il gioco di parole fondato sull’antitesi) della porta da parte dell’angelo, con ancora l’avvertimento a non volgersi indietro (“…facciovi accorti/ che di fuor torna chi ’n dietro si guata”, vv. 131sg.), chiaro riferimento all’episodio mitologico di Orfeo ed Euridice, ma anche, pur nella differenza della punizione – là il diventare statua di sale, qui il ritornare indietro fino al principio – a quello biblico della moglie di Lot. L’avvertimento può essere inteso come un richiamo al fatto che, una volta intrapreso un cammino di pentimento, penitenza e purificazione (simboleggiato dall’entrare e poi salire lungo il Purgatorio), non ci si deve pentire (volgere indietro) della decisione presa: insomma non ci si deve pentire di essersi pentiti, ma procedere diritti e diretti sulla strada del bene, senza guardare indietro il male da cui ci si è distaccati né, tanto meno, ricadere in esso.
Per concludere mi sembra importante, al di là, come già detto, della grandezza del Dante “didatta” in campo catechetico, sottolineare anche l’importanza del Sacramento della Confessione, ancor più in questo 500° della riforma luterana che, come si sa, ha eliminato la Confessione dall’orizzonte del cristiano riformato.
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PURGATORIO IX
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La concubina di Titone antico
già s’imbiancava al balco d’oriente,
fuor de le braccia del suo dolce amico;
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di gemme la sua fronte era lucente,
poste in figura del freddo animale
che con la coda percuote la gente;
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e la notte, de’ passi con che sale,
fatti avea due nel loco ov’eravamo,
e ’l terzo già chinava in giuso l’ale;
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quand’io, che meco avea di quel d’Adamo,
vinto dal sonno, in su l’erba inchinai
là ‘ve già tutti e cinque sedavamo.
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Ne l’ora che comincia i tristi lai
la rondinella presso a la mattina,
forse a memoria de’ suo’ primi guai,
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e che la mente nostra, peregrina
più da la carne e men da’ pensier presa,
a le sue vision quasi è divina,
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in sogno mi parea veder sospesa
un’aguglia nel ciel con penne d’oro,
con l’ali aperte e a calare intesa;
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ed esser mi parea là dove fuoro
abbandonati i suoi da Ganimede,
quando fu ratto al sommo consistoro.
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Fra me pensava: “Forse questa fiede
pur qui per uso, e forse d’altro loco
disdegna di portarne suso in piede”.
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Poi mi parea che, poi rotata un poco,
terribil come folgor discendesse,
e me rapisse suso infino al foco.
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Ivi parea che ella e io ardesse;
e sì lo ’ncendio imaginato cosse,
che convenne che ’l sonno si rompesse.
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Non altrimenti Achille si riscosse,
li occhi svegliati rivolgendo in giro
e non sappiendo là dove si fosse,
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quando la madre da Chirón a Schiro
trafuggò lui dormiendo in le sue braccia,
là onde poi li Greci il dipartiro;
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che mi scoss’io, sì come da la faccia
mi fuggì ’l sonno, e diventa’ ismorto,
come fa l’uom che, spaventato, agghiaccia.
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Dallato m’era solo il mio conforto,
e ’l sole er’alto già più che due ore,
e ’l viso m’era a la marina torto.
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«Non aver tema», disse il mio segnore;
«fatti sicur, ché noi semo a buon punto;
non stringer, ma rallarga ogne vigore.
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Tu se’ omai al purgatorio giunto:
vedi là il balzo che ’l chiude dintorno;
vedi l’entrata là ve par digiunto.
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Dianzi, ne l’alba che procede al giorno,
quando l’anima tua dentro dormia,
sovra li fiori ond’è là giù addorno
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venne una donna, e disse: «I’ son Lucia;
lasciatemi pigliar costui che dorme;
sì l’agevolerò per la sua via».
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Sordel rimase e l’altre genti forme;
ella ti tolse, e come ’l dì fu chiaro,
sen venne suso; e io per le sue orme.
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Qui ti posò, ma pria mi dimostraro
li occhi suoi belli quella intrata aperta;
poi ella e ’l sonno ad una se n’andaro».
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A guisa d’uom che ’n dubbio si raccerta
e che muta in conforto sua paura,
poi che la verità li è discoperta,
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mi cambia’ io; e come sanza cura
vide me ’l duca mio, su per lo balzo
si mosse, e io di rietro inver’ l’altura.
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Lettor, tu vedi ben com’io innalzo
la mia matera, e però con più arte
non ti maravigliar s’io la rincalzo.
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Noi ci appressammo, ed eravamo in parte,
che là dove pareami prima rotto,
pur come un fesso che muro diparte,
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vidi una porta, e tre gradi di sotto
per gire ad essa, di color diversi,
e un portier ch’ancor non facea motto.
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E come l’occhio più e più v’apersi,
vidil seder sovra ’l grado sovrano,
tal ne la faccia ch’io non lo soffersi;
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e una spada nuda avea in mano,
che reflettea i raggi sì ver’ noi,
ch’io drizzava spesso il viso in vano.
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«Dite costinci: che volete voi?»,
cominciò elli a dire, «ov’è la scorta?
Guardate che ’l venir su non vi nòi».
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«Donna del ciel, di queste cose accorta»,
rispuose ’l mio maestro a lui, «pur dianzi
ne disse: «Andate là: quivi è la porta».
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«Ed ella i passi vostri in bene avanzi,
ricominciò il cortese portinaio:
«Venite dunque a’ nostri gradi innanzi».
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Là ne venimmo; e lo scaglion primaio
bianco marmo era sì pulito e terso,
ch’io mi specchiai in esso qual io paio.
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Era il secondo tinto più che perso,
d’una petrina ruvida e arsiccia,
crepata per lo lungo e per traverso.
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Lo terzo, che di sopra s’ammassiccia,
porfido mi parea, sì fiammeggiante,
come sangue che fuor di vena spiccia.
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Sovra questo tenea ambo le piante
l’angel di Dio, sedendo in su la soglia,
che mi sembiava pietra di diamante.
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Per li tre gradi su di buona voglia
mi trasse il duca mio, dicendo: «Chiedi
umilemente che ’l serrame scioglia».
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Divoto mi gittai a’ santi piedi;
misericordia chiesi e ch’el m’aprisse,
ma tre volte nel petto pria mi diedi.
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Sette P ne la fronte mi descrisse
col punton de la spada, e «Fa che lavi,
quando se’ dentro, queste piaghe», disse.
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Cenere, o terra che secca si cavi,
d’un color fora col suo vestimento;
e di sotto da quel trasse due chiavi.
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L’una era d’oro e l’altra era d’argento;
pria con la bianca e poscia con la gialla
fece a la porta sì, ch’i’ fu’ contento.
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«Quandunque l’una d’este chiavi falla,
che non si volga dritta per la toppa»,
diss’elli a noi, «non s’apre questa calla.
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Più cara è l’una; ma l’altra vuol troppa
d’arte e d’ingegno avanti che diserri,
perch’ella è quella che ’l nodo digroppa.
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Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
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Poi pinse l’uscio a la porta sacrata,
dicendo: «Intrate; ma faccioni accorti
che di fuor torna chi ’n dietro si guata».
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E quando fuor ne’ cardini distorti
li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,
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non rugghiò sì né si mostrò sì acra
Tarpea, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
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Io mi rivolsi attento al primo tuono,
e “Te Deum laudamus” mi parea
udire in voce mista al dolce suono.
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Tale imagine a punto mi rendea
ciò ch’io udiva, qual prender si suole
quando a cantar con organi si stea;
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ch’or sì or no s’intendon le parole.
6 commenti su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) / V – di Dario Pasero”
A proposito di quelle tali persone molto in alto nelle gerarchia che si riempiono la bocca ”, non “talvolta” , ma, dico io, più che spesso, sempre , con metodo ossessivo e ripetitivo, di misericordia (d’ accatto), nominiamo pure senza reticenza alcuna, il più in alto in quella ‘gerarchia’ , il pastore che da Vicario di Cristo è salito al ruolo di Super-Cristo che rivela una nuova e inedita misericordia divina sul mondo…Per la quale infatti sono tutte astruserie queste storie di scalini di colori di materiali e di soglie e di chiavi e di angeli e di San Pietro…perché tutto è semplice e facile: che bisogno hai di pentirti di confessione di proposito se tutto è già deciso tutto fatto tutto già dato, e tutti riflati in cielo siamo, per decreto divino, anzi papale ( a condizione unica, attenzione, che tu – tu, dico – accolga milioni di negri e di barbutti islamici e velate islamiche???) Non ha detto già coram populo che la “parola dottrina è cosa difficile”, da scartare se si vuole vivere in pace, e che ognuno se la veda come gli pare , salvo non mettere in discussione…
…,i sacri migranti (vedi il Bergoglio nella chiesa luterana a roma anno 2015 ), ai quali dovere assoluto e incondizionato è quello di spalancargli il nostro cuore (o altro ), non importa se poi qualcuno un po’ più misericordioso degli altri (difatti a capo di ‘Misericordie”) ci fa anche gli affaracci suoi, con le benedizioni che impartisce????
Mi ero completamente dimenticata di questo canto. Chissà perché rimane impressa solo la prima cantica. Grazie per avere scelto questi versi; è sempre un piacere tuffarsi nel sommo vate in questi tempi cupi dominati dall’ignoranza.
Si nota (sinistramente…..) la discrasia tra il sacramento lirico descritto da Dante e quello grossolano e volgare di alcuni neo-teologi, come se vi fosse un’oscura analogia tra i concetti e il linguaggio con cui essi sono espressi…….
Molto gradita la “quasi ironica” precisazione sul Guénon…….
Caro Pasere, la porta del Purgatorio (arta e stretta) così come quella dell’Inferno (larga e spalancata) non esistono più, stando alla pastorale di Papa Bergoglio il quale, in una catechesi tenuta alle Clarisse di Castel Gandolfo, ha fatto presente che la Madonna, allorché cala la notte e san Pietro si assopisce, apre l’angusta porta del Paradiso e fa entrare i “poveri peccatori” che il mastino ostiario ha respinto. E che tale sia la convinzione del vescovo di Roma è dimostrato dal fatto che a Fatima-13/13 maggio- non ha puntato sulla realtà dell’inferno, quello che la Vergine aveva mostrato ai tre pastorell – altro che cuore di mamma che apre la porta a tutti – ma si è dilungato sulla pace, pace, pace come se il messaggio sia stato un edulcorato pistolotto.
deve avere un terrore micidiale dell’inferno questo Bergoglio, se si danna tanto per negarlo e irriderne l’esistenza. Purtroppo è una storia che si ripete , in questa chiesa del ‘tutti dentro’ automatico…
Da Pier le tegno; e dissemi ch’i’ erri
anzi ad aprir ch’a tenerla serrata,
pur che la gente a’ piedi mi s’atterri».
Bene, e che Piero è quello che sta là a farsi creder successor di Piero, di colui che diceva ?Misericordiacerto, ” …pur che la gente a’piedi mi si ATTERRI”. O questo qui, il detto Piero- Francesco, a qualcun altro è succeduto???