di Don Marcello Stanzione
Clemente Rebora (Milano 1885 – Stresa, Verbania 1957), poeta italiano ed in seguito presbitero cattolico. Crebbe in un ambiente di intensi affetti familiari e di rigorosa moralità laica e risorgimentale. Si laureò in lettere a Milano con una tesi su Domenico Romagnosi e seguì i corsi di filosofia di Piero Martinetti. Collaborava intanto sporadicamente alla “Voce” prezzoliniana, che nel 1913 pubblicò i suoi Frammenti lirici, incompresi dalla critica per la novità dei contenuti e soprattutto per la scabra concentrazione del linguaggio.
Al primo conflitto mondiale il poeta partecipò come ufficiale di fanteria sugli altipiani di Asiago e poi a Gorizia, dove il suo già labile sistema nervoso rimase compromesso dallo scoppio di una mina. Tornato a Milano, maturò una crisi spirituale, nutrita di Bibbia, autori orientali, mistici, che trovò espressione nei Canti anonimi (1922) e conclusione di un percorso che lo portò nella congregazione religiosa dei Padri Rosminiani (1931), dove ricevette l’ordinazione sacerdotale(1936), con il voto segreto di “patire e morire oscuratamente, scomparendo polverizzato nell’amore divino”.
Il volume Canti dell’infermità (1956) , che raccoglie poesie scritte tra il 1947 e il 957, già riunite in piccole sillogi (Il gran grido, Curriculum Vitae, Gesù il fedele, Il Natale), testimonia l’acre voluttà del dissolvimento e illuminismo razionalistico (di cui era imbevuta la sua prima educazione), ansia di attivismo sociale irrealizzabile e intenso desiderio di segregazione. A ciò si aggiunge la lacerante assunzione della città e della campagna come entità atte a significare il conflitto di civiltà antitetiche e simboli onnipresenti del male e del bene. Ne consegue l’anelito alla comunione totale con un dio di giustizia e di misericordia, approdo confortante in cui soltanto è attuabile l’elevazione della brutta animalità. Riflette questo anelito il dettato poetico. Ritmicità storica, assunzione eccentrica di un lessico composito, sforzato a esprimere concetti inusitati nella tradizione letteraria italiana (quando non si voglia fare riferimento ai modelli del più rarefatto stilnovismo e della concitata scrittura iacoponica) imprimono al suo messaggio ecumenico il ritmo di una meditazione sconvolgente. Una raccolta completa delle sue poesie, è stata pubblicata nel 1988.
Del poeta sono da ricordare anche alcuni scritti critici, anteriori alla conversione, tra cui Per un Leopardi mal noto (1910) e traduzioni dal russo (Andreev, Gogol’, Tolstoj). Tutti conoscono la sua attitudine e il liscio vigore poetico, il quale consuma il suoi versi nella luminosa vigilia dell’incontro con Dio, colto con il sorriso, nonostante il sofferto quadrare del destino terreno. La sua poesia assorbe la religiosa fiducia, che gli insegna ad amare meglio e donare di più, assimilando pagine di stupore in una primavera resa verso l’Assoluto. Attende, così, senza impazienza, né malinconie, il richiamo azzurro dell’intimità con Dio. Si lascia inoltre attirare da essa, fino a sentire l’appello dell’anima, fuori dei cancelli socchiusi e dentro il tremito dei sensi, fino a vestirla di colori e di magia. Contribuiscono alla formazione lirica del dibattito ondate di profumo e venti di desiderio angelici, la cui rappresentanza si focalizza nell’annuncio di Gabriele alla Vergine Maria. E lì che l’uomo impara a patire, offrire e servire. E lì che il cuore ama, lo spirito canta, la coscienza persevera.
ANNUNCIAZIONE
I
Eternità vivente in sé sta Dio:
amor di padre Amante e Figlio Amato:
si bea. Invita a nozze
l’umanità. “No!” . sozze
lusinghe; e muor, si perde. Urge al creato
Cristo, mistero di bontà: noi Dio.
II
Verginalmente a sé prega Maria;
silenzio è intorno nella notte immensa.
Si immola, avvampa in cuore:
“Conoscan Te, Signore,
i miei fratelli!”. S’inabissa, pensa
l’Agnel divino: “Oh, vieni! Così sia”.
III
“Ave…”. L’Angelo è lì. Forse l’atroce
Che sedusse Eva? “Non temer , darai
Alla luce Gesù”.
“Come? Non so quaggiù”.
“Tutto può Dio: di Spirito avrai
Il Suo figlio”. “Ecco. Sì”. Fulge la Croce.
(Da Le poesie (1913 – 1957), all’Insegna del Pesce d’Oro, Milano 1982)
Alla Sacra di San Michele in Piemonte Il Padre Rosminiano Rebora trascorse vari periodi, traendone forte ispirazione , che gli ha consentito di fissare quei soggiorni in frammenti di scritti essenziali, d’intensa spiritualità e di afflato cosmico. In quel luogo consacrato all’Arcangelo egli tradusse dal latino la famosa invocazione a San Michele scritta dal Papa Leone XIII che per oltre mezzo secolo si recitò alla fine della Messa.
INVOCAZIONE A SAN MICHELE ARCANGELO
O San Michele Arcangelo
Difendici nella battaglia;
contro la perfidia
e le insidie del diavolo
tu sii a noi sostegno.
Gli comandi Iddio,
supplici noi preghiamo:
e tu, o Principe
della milizia celeste,
Satana e gli altri spiriti maligni,
che a perdizione degli uomini
vagano nel mondo,
con divina virtù
nell’inferno discaccia.
(con approvazione ecclesiastica traduzione di Clemente Rebora)