Redazione
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E’ appena uscito, per i tipi della casa editrice Fede & Cultura, il quarto volume della serie «Il Kattolico», di Rino Cammilleri. Il libro ha per titolo «Il Vangelo fa parte del Paesaggio?», contiene 224 pagine e costa 19 euro. E’ la quarta raccolta della popolare rubrica intitolata «Il Kattolico», che Cammilleri, scrittore e saggista, uno dei principali apologeti cattolici italiani, tiene sul mensile “Il Timone» fin dal primo numero. Le prime tre sono uscite per Piemme nel 2001, per Sugarco nel 2005 e per Gilgamesh nel 2011. Per gentile concessione dell’Autore e dell’editore, pubblichiamo il capitolo che Rino Camilleri dedicò al sacrificio compiuto in Italia dalla cattolicissima armata polacca comandata dal generale Anders durante la seconda guerra mondiale.
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QUEI POLACCHI CHE MORIRONO PER L’ITALIA
di Rino Cammilleri
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«Troppi erano stati i soprusi perpetrati dai russi ai danni della loro patria per trattenere i sentimenti anticomunisti dei combattenti del 2° corpo polacco. Ne fecero le spese quei partigiani comunisti italiani che continuavano a provocare i soldati di Anders sventolando sotto i loro occhi bandiere rosse con la falce e il martello». Così comincia la pag. 93 del libro di Luciano Garibaldi, firma del «Timone», sui combattenti polacchi in Italia durante l’ultima guerra mondiale. Aperto il volume a caso, mi sono imbattuto proprio in ciò a cui non so resistere: una pagina di storia ignorata e meritevole di essere raccontata. Ed ecco qua. Il generale Wladyslaw Anders aveva formato un corpo d’armata di polacchi in esilio, la cui patria era stata fraternamente spartita da Hitler e Stalin prima che i due despoti cominciassero ad azzuffarsi tra loro. E, poiché l’Urss si era alleata con gli Alleati, ai polacchi, inquadrati tra questi ultimi, non era rimasto che combattere contro i tedeschi, distinguendosi soprattutto sul fronte di Cassino (il libro di Luciano Garibaldi si intitola proprio Gli eroi di Montecassino. Storia dei polacchi che liberarono l’Italia, Oscar Mondadori). A proposito, l’autore svela che la fissazione di voler radere al suolo l’abbazia di Montecassino fu tutta del generale neozelandese Bernard Freyberg, arciconvinto che l’antichissimo monastero pullulasse di tedeschi. L’americano Clark era dubbioso, ma finì con l’acconsentire. Fu «un tragico errore», come lui stesso ammise nelle sue memorie, che costò la vita alle centinaia di civili (oltre quattrocento, compresi donne e bambini) che avevano cercato rifugio tra quelle mura millenarie. Anzi, fu proprio dopo che Montecassino fu ridotto in rovine che i tedeschi, a quel punto, vi si asserragliarono e ci volle un’ecatombe di soldati di ambo le parti per averne ragione.
Qualcuno ancora oggi si chiede perché il colle dell’abbazia non fu semplicemente aggirato. Ma la seconda guerra mondiale è piena di misteri che molto probabilmente rimarranno tali. Tra i quali anche questo: perché, dopo Hiroshima, una seconda bomba atomica sul Giappone? E perché proprio su Nagasaki, dove stava la quasi totalità dei cristiani giapponesi (tutti cattolici)? Bella domanda. Ma torniamo a Montecassino. Il generale tedesco Frido von Senger und Etterlin, praticamente la massima autorità militare del settore, era un fervente cattolico e addirittura un terziario benedettino. Aveva fatto trasferire in Vaticano su camion tutte le opere d’arte dell’abbazia e l’intera sua preziosissima biblioteca, poi aveva fatto divieto alle sue truppe di mettere piede tra quelle sacre mura. Proprio per preservare queste ultime dalla guerra, dal momento che gli Alleati erano in avvicinamento. Questi, d’altra parte, non erano ignari di tali movimenti ma subodoravano un trucco. Dopo le comprensibili titubanze, la «prova» definitiva che i tedeschi nell’abbazia c’erano davvero la diede un’intercettazione radio: due soldati germanici, di cui uno chiedeva «Wo ist der Abt? Ist er noch im Kloster?» e l’altro rispondeva «Ja!». Fu tradotto così: «Dov’è il battaglione? Dentro al monastero?». Risposta: «Sì!». Solo che «battaglione» (Abteilung, da cui il diminutivo Abt) in tedesco è femminile, dunque die Abt e non der Abt –maschile- come effettivamente il soldato disse. Infatti si riferiva all’abate (der Abt) e chiedeva se fosse ancora nel monastero. Così, per un errore grammaticale compiuto da un ufficiale dell’Intelligence inglese, sull’abbazia si abbatterono cinque ondate di bombardieri, 230 in tutto, che riversarono 450 tonnellate di bombe ad alto potenziale (il comandante della divisione indiana, generale Tucker, aveva acquistato in una bancarella a Napoli un opuscolo sull’abbazia e vi aveva letto che le antiche mura erano parecchio spesse). Il bello è che il figlio del neozelandese Freyberg, l’ostinato assertore del bombardamento, era rimasto prigioniero dei tedeschi ma era scappato e aveva trovato rifugio a Castel Gandolfo. Dove? Lui, tenente di fanteria, in un monastero di monache benedettine.
Come abbiamo detto, la vera battaglia di Montecassino, una delle più sanguinose di tutta la guerra, si svolse dopo la distruzione dell’abbazia, perché a quel punto le rovine offrirono ai tedeschi un fortino pressoché imprendibile. Terminata la battaglia, gli Alleati ripresero l’avanzata e furono proprio i polacchi i primi a entrare in Bologna. Ma qui fu giusto per un pelo che si evitò lo scontro armato con le formazioni partigiane comuniste. Né la cosa finì là, perché, terminate le ostilità coi tedeschi, i 110mila polacchi del corpo d’armata in Italia furono sparpagliati per tutta la penisola. E fu allora che cominciarono gli scontri con i comunisti, qua e là, con morti e feriti. Il partito comunista fece tappezzare i muri delle città italiane di manifesti su cui stava scritto «Polacchi fascisti, tornate a casa!». Le cose montarono a tal punto che il generale Anders, all’ora del referendum monarchia-repubblica del 2 giugno 1946, offrì al re Umberto II la sua disponibilità a farla finita una volta per tutte con i comunisti in Italia. Il «re di maggio», che non aveva mai brillato per statura politica, declinò e la storia seguì il corso che conosciamo. Si evitò forse al Paese una guerra civile come quella allora in corso in Grecia, ma lo si condannò, per sempre, alla presenza del cosiddetto «Fattore K» che ne ha condizionato, e ancora condiziona, l’esistenza. Ne approfittò l’astuto Togliatti, che in qualità di ministro della giustizia riempì i ranghi della polizia di ex partigiani rossi rimasti disoccupati. E non mancarono gli scontri tra soldati polacchi e poliziotti. Dopo il referendum che vide la vittoria risicata della repubblica, a Napoli i monarchici manifestarono davanti alla sede del partito comunista protestando contro i presunti brogli (il famoso milione di voti “fantasma”). La polizia aprì il fuoco e nove manifestanti rimasero sul terreno. Scrive Garibaldi che i primi colpi partirono dalle finestre della sede comunista, dove si era appena affacciato Giorgio Amendola per inveire contro i manifestanti. I primi morti furono due marinai in divisa che cercavano di arrampicarsi sulla finestra stessa per strapparne la bandiera rossa. Una ragazza ventenne, avvolta in un tricolore italiano, venne stritolata da una camionetta della polizia. Fu allora che Anders fece la sua offerta al re. E dire che pochi mesi prima aveva rivolto un appello ai suoi uomini affinché non rispondessero alle provocazioni dei comunisti. Ma ai soldati polacchi prudevano le mani: a Forlì un loro camion era caduto in un’imboscata dei comunisti, un soldato era rimasto ucciso e due altri feriti gravemente a colpi di raffiche di mitra. A Lugo di Romagna un partigiano rosso aveva trucidato un militare polacco. Un altro era finito ammazzato a Cesena. A Ravenna, due feriti gravi per una bomba a mano. E si potrebbe continuare. Ma i polacchi reagivano, talvolta pesantemente. A Cervia, in un’altra occasione, una rissa tra soldati polacchi ed ex partigiani degenerò: una bomba a mano polacca causò tre morti e diversi feriti. Il responsabile venne processato da un tribunale militare polacco e fucilato. I polacchi sapevano di Katyn e dei 15mila loro ufficiali ivi sepolti? Certo, come tutti. Ma sapevano pure che i nazisti, per decapitare le classi dirigenti, usavano i lager: il colpo alla nuca e la fossa comune erano una firma dell’Nkvd sovietica.
Del resto, «ogni giorno Radio Mosca e Radio Varsavia rovesciavano nell’etere insulti contro l’armata “fascista” di Anders», che nel 1946 venne privato dal governo ormai comunista della cittadinanza polacca come «nemico dello Stato». I comunisti italiani non sopportarono a lungo l’armata polacca, che infatti gli Alleati consentirono a sciogliere. Secondo Luciano Garibaldi, specialmente gli inglesi avevano qualche scheletro nell’armadio: le trattative segrete tra Churchill e Mussolini. Quest’ultimo, implorato dal primo di convincere Hitler a sospendere la guerra sul fronte occidentale per concentrarla su quello orientale, non riuscì. Il Duce che in fuga portava con sé questi documenti fu ucciso dai partigiani comunisti, i quali si erano accollati il lavoro sporco al posto dei britannici. I documenti sparirono e pure il famoso «oro di Dongo», in gran parte razziato agli ebrei italiani deportati nei lager nazisti. La ricostruzione dell’autore è questa: i documenti imbarazzanti andarono agli inglesi e l’oro al partito comunista, come da taciti patti. Perciò, quando poi quest’ultimo chiese la liquidazione dell’armata polacca, gli inglesi non poterono dire di no. Sia come sia, anche qui abbiamo uno dei tanti misteri della seconda guerra mondiale che probabilmente resteranno per sempre tali.
I seimila polacchi caduti in Italia sono sepolti in quattro cimiteri, uno dei quali a Montecassino. In questo ha voluto essere sepolto il generale Wladyslaw Anders. Vi campeggia la scritta: «Hanno dato l’anima a Dio, il cuore alla Polonia, il corpo alla terra italiana».
4 commenti su “Quei polacchi che morirono per l’Italia – di Rino Cammilleri”
Una bella spina nel fianco ci fu posta. Chissà perchè?
Io ricordo bene i soldati polacchi che liberarono la mia cittadina di Corridonia e quelli che morirono lungo il fiume Chienti combattendo contro i tedeschi. Li riportarono in città dentro dei sacchi di iuta. Ricordo bene anche i tedeschi, e il cannoneggiamento contro il mio paese. Anche a Corridonia ebbero scontri fisici e revolverate con i partigiani, considerati comunisti. A torto, perché erano stati ferventi fascisti. Diventarono partigiani per non andare, o ritornare al fronte. I polacchi, dopo la sanguinosa battaglia di Filottrano, ritornarono a Corridonia, occupando un vecchio monastero delle Clarisse di fronte a casa mia. Io stavo sempre con loro e mi ero affezionato ad Umberto, un soldato di 26 anni, che consideravo quasi un padre, in quando il mio era prigioniero in Sud Africa.. Ricordo che quando uscivano dalla chiesa non volgevano mai le spalle all’altare, inchinandosi e segnandosi con la croce diverse volte. Alcuni di essi si sposarono con le mie concittadine. E’ vero, i Polacchi dettero la vita in tanti ed io li ricordo con affetto
È bello scorgere nell’attuale buio della storiografia ufficiale un bagliore di verità . Queste sono le verità che il nostro governo Boldrini in testa vorrebbero cancellare una volta per tutte per sostituirle con le loro, indottrinamento gender compreso.
Poveri polacchi, in tanti versi simili al nostro popolo, ingannato e bistrattato!