Memorie di un’epoca – rubrica mensile a cura di Luciano Garibaldi
biografie, eventi, grandi fatti, di quel periodo in cui storia e cronaca si toccano
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35 – venerdì 31 marzo 2017
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I DUE ITALIANI CHE SI BATTERONO PER LA LIBERTA’ DELL’UNGHERIA
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Nel sessantesimo anniversario della rivolta degli ungheresi contro l’oppressione comunista, la Casa editrice Italia Storica (ars_italia@hotmail.com) ha pubblicato una nuova edizione del libro dello storico inglese David Irving «Una nazione in rivolta. La rivoluzione ungherese del 1956». Il libro di Irving, 400 pagine, illustrato con decine di fotografie inedite, si avvale della prefazione dello storico e saggista Luciano Garibaldi, firma di “Riscossa Cristiana”, che qui pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore.
di Luciano Garibaldi
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Sono appena trascorsi sessant’anni dalla tragica rivolta ungherese di fine 1956, che vide la popolazione di Budapest opporsi ai mezzi corazzati dell’URSS, che opprimeva il Paese e perseguitava in modo particolare le organizzazioni cattoliche, dopo avere rinchiuso in carcere per anni l’arcivescovo cardinale Josef Mindszenty. In quelle infuocate giornate, persero la vita circa 2500 ungheresi e 700 soldati sovietici. I feriti furono migliaia e non meno di 250 mila persone (pari al tre per cento della popolazione ungherese) dovettero fuggire in Occidente richiedendo asilo politico, per sfuggire alla terribile sorte che li attendeva, a rivoluzione domata. In tutta Europa quegli eventi sollevarono grande emozione e fecero capire a tutti che cosa significava vivere sotto la cappa del comunismo sovietico. In Italia, soprattutto per la sorte toccata al Cardinale e a tanti esponenti della Chiesa cattolica perseguitati – e moltissimi uccisi – dagli sgherri di Mosca, quella vicenda fu vissuta con particolare partecipazione.
Ma furono due, soltanto due, gli italiani impegnati in politica, a schierarsi senza riserve a fianco degli ungheresi schiacciati ed oppressi dall’invasione sovietica dell’autunno 1956. Ho avuto il privilegio e l’onore di conoscerli, di diventare loro amico, di operare con loro. Uno, Edgardo Sogno, mitico comandante della formazione partigiana “Franchi” durante la Resistenza, straordinario uomo d’azione, riuscì a portare in salvo migliaia di ungheresi perseguitati dal regime comunista e mi consentì di raccontare la sua straordinaria impresa, mai prima resa nota, sulle colonne del mensile «Storia Illustrata». L’altro, Franco Servello, in quel 1956 direttore del settimanale «Meridiano d’Italia», in seguito uomo politico e vicepresidente del Senato, fu il giornalista italiano che più di ogni altro denunciò la insopportabile violenza subìta dagli ungheresi, ma anche l’ignavia e l’indifferenza con cui tutti i Paesi dell’Europa libera seguivano le sanguinose vicende di Budapest.
La rivoluzione popolare scoppiata nella capitale ungherese la mattina di martedì 23 ottobre 1956 e dilagata nei giorni e nelle settimane seguenti fino a concludersi con un olocausto di 80 mila morti e più di 100 mila feriti, veniva infatti seguita con distacco da tutto l’Occidente. A quel comportamento contribuì il quadro che gli accordi di Yalta avevano determinato con la ripartizione del mondo in due zone di influenza: l’Europa Occidentale sotto quella degli Stati Uniti e dei suoi alleati; l’Europa Orientale e in genere l’intero Est del mondo sotto quella dell’Urss.
Queste le ragioni per le quali il popolo ungherese fu lasciato alla mercé degli invasori sovietici, dei loro carri armati, delle loro artiglierie pesanti, dei loro plotoni d’esecuzione. Oltretutto, gli eventi ungheresi rappresentarono anche l’alibi per l’occupazione franco-britannica del Canale di Suez, portata a buon fine senza che le due potenze europee, fingendo di ignorare quanto stava accadendo in Ungheria, rischiassero di doversela vedere con la Russia.
Per quanto concerne l’Italia, basterebbe rilevare che fu rifiutato persino un dibattito parlamentare che avrebbe sicuramente messo in difficoltà la Democrazia Cristiana rispetto al disegno, che aveva già incominciato a delinearsi fin dagli ultimi tempi di De Gasperi, dell’avvio di un “compromesso storico” con il Pci.
Ma veniamo ai dettagli, e iniziamo ricordando la coraggiosa e nobile impresa di Edgardo Sogno, che in breve tempo riuscì a creare una centrale operativa in territorio austriaco, sul confine con l’Ungheria. Sogno era, in quel momento, un diplomatico di carriera in aspettativa. Già famosissimo per le sue imprese durante la Resistenza in Italia, quando aveva dato vita all’«organizzazione Franchi» per lottare contro i nazisti guadagnandosi una medaglia d’oro al valor militare (tra le sue “specialità” v’era quella di entrare nei comandi della Gestapo travestito da ufficiale delle SS col monocolo all’occhio per liberare i partigiani arrestati), Sogno era già allora diventato quello che sarebbe stato poi sempre, per tutta la sua vita: un fervente anticomunista. Come tale, aveva dato vita al movimento «Pace e Libertà» e, come tale, non poteva restare insensibile – mentre invece lo fu non solo l’Italia, ma tutto l’Occidente – alle disperate richieste di aiuto che gli insorti ungheresi lanciavano giorno e notte attraverso le loro stazioni radio. Il governo di Imre Nagy, assediato dai carri armati sovietici, chiedeva armi e volontari per combattere l’invasore straniero. Ma nessuno accorreva in suo aiuto, mentre i sovietici continuavano ad uccidere i capi della rivolta.
Grazie a Sogno e alla sua organizzazione, uno dopo l’altro, furono posti in salvo a Vienna, con le loro famiglie, l’architetto Istvan Jankovic, professore all’Università di Budapest e braccio destro del colonnello Pal Maleter, il capo della rivolta arrestato dai russi fin dal 4 novembre di quel 1956; l’ingegnere Laszlo Oltvanyi, comandante della difesa di Budapest Sud e presidente della Federazione combattenti ungheresi per la libertà; il generale Bela Kiraly, comandante della Guardia Nazionale; l’eroe di Csepel, Istvan Buri; il presidente del Consiglio operaio rivoluzionario di Budapest, Lajos Varfalvi, e decine di altri capi della rivolta.
Le squadre di Sogno andavano e venivano attraverso il confine, ancora libero, rifornite di mezzi, danaro e armi leggere. Ma, per una vera resistenza, sarebbero state necessarie armi pesanti. Varfalvi, Oltvanyi e Buri scrissero un appello al capo del governo italiano, Antonio Segni «in nome dei 65.000 combattenti caduti eroicamente per la libertà, degli 80.000 feriti, di tutte le vedove e gli orfani, dei 100.000 ungheresi rimasti senza tetto perché i loro pacifici focolari sono stati distrutti dai carri armati e dai cannoni sovietici, infine dei 9 milioni di cittadini della nazione ungherese, privata di ogni diritto e di ogni dignità».
«Ci rivolgiamo anzitutto all’Italia», scrissero gli ungheresi «perché è il Paese al quale ci lega da secoli un passato comune. Noi confidiamo che anche oggi la nostra causa verrà considerata dal popolo italiano come una missione di primaria importanza, tanto più che l’avanzata del bolscevismo minaccia anche l’Italia». L’appello non ricevette risposta e non fu neppure reso pubblico.
A quel vergognoso clima di indifferenza e di vigliaccheria, al quale contribuiva tutta la stampa italiana, si oppose, con determinazione e coraggio, la redazione del «Meridiano d’Italia», diretta da Franco Servello, che rievocherà quelle intense giornate mezzo secolo dopo, in un convegno svoltosi a Milano nell’ottobre 2006, cinquantesimo anniversario della tragedia di Budapest. Come ricordò Servello in quell’occasione, Imre Nagy non voleva altro che uscire dal Patto di Varsavia e proclamare la neutralità dell’Ungheria tra i due blocchi. Gli ungheresi volevano diventare come la Svizzera, niente di più. Questa era la verità che l’Occidente si ostinava a non comprendere.
I vertici del PCI non avevano avuto alcuna esitazione e si erano schierati fin dal primo momento a fianco dell’URSS. «Viva l’Armata Rossa!», aveva concluso il suo intervento alla Camera Giuliano Pajetta urlando contro il liberale Gaetano Martino, ministro degli Esteri del governo Segni. «Noi non possiamo ignorare la funzione dell’esercito sovietico liberatore», aveva proseguito Pajetta in modo provocatorio. Un altro almeno apparentemente schierato con gli oppressori era stato l’allora direttore de “l’Unità” Pietro Ingrao, che, in un libro di memorie pubblicato molti anni dopo, dal titolo «Volevo la Luna», farà ammenda. Tra gli errori di cui si pentirà, quello che definirà «il più grave della mia vita», ossia l’editoriale sui fatti d’Ungheria pubblicato senza firma su “l’Unità” e avente per titolo: «Da una parte della barricata a difesa del socialismo».
La parte era ovviamente quella sovietica. La disciplina di partito e la fedeltà al Capo facevano miracoli. Ma il Capo no, quei tormenti, se li aveva, non li lasciava trapelare. Tanto che una sera di quelle, Ingrao andò a trovarlo a casa e «gli dissi subito il mio sgomento per l’invasione dell’Ungheria. Togliatti mi rispose asciuttamente: “Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”».
Ed ecco alcune delle frasi scritte da Togliatti su “l’Unità” contro gli insorti di Budapest: «Si tratta di una controrivoluzione bianca! Militanti! Non lasciatevi sorprendere né ingannare e sopraffare dall’ondata reazionaria anticomunista e antisocialista. Siamo di fronte ad una sommossa armata manovrata dai reazionari e dai fascisti. Alla sommossa che mette a ferro e fuoco le città non si può rispondere che con le armi perché è evidente che se ad essa non si pone fine, è tutta la nuova Ungheria che crolla. Quando il combattimento è aperto, chi ha preso le armi bisogna abbatterlo!».
Quanto a Giorgio Napolitano – che il 26 settembre 2006, da presidente della Repubblica Italiana, si recherà a Budapest a rendere omaggio alle tombe di Imre Nagy e degli altri Caduti – aveva espresso su chi dissentiva dall’invasione sovietica dell’Ungheria il seguente giudizio: «Il compagno Antonio Giolitti ha il diritto di esprimere le proprie opinioni, ma io ho quello di aspramente combattere le sue posizioni. L’intervento sovietico ha non solo contribuito a impedire che l’Ungheria cadesse nel caos e nella controrivoluzione, ma ha contribuito alla pace nel mondo».
I socialisti, con alla testa Pietro Nenni, si dissociarono subito dalle posizioni del PCI. Riccardo Lombardi scrisse a Celeste Negarville, presidente dei “Partigiani della Pace”, organizzazione socialcomunista alla quale egli aderiva assieme a numerosi altri socialisti: «Se il PCI insiste nel difendere l’URSS, i socialisti usciranno immediatamente dall’Associazione». Il risultato di quella presa di posizione fu un documento, firmato da Negarville, di aperta protesta contro l’aggressione sovietica.
Ma vi fu una rivolta anche all’interno del PCI. Assieme a Giuseppe Di Vittorio, furono almeno 30 i deputati e senatori del PCI che si ribellarono. Di Vittorio dichiarò: «Sbaglierebbero coloro i quali pensassero che le cose possono cambiare ed andare come prima nel mondo socialista. Conosco da 40 anni gli operai, a differenza di quanti, opportunisti agli ordini di padroni lontani, sono rimasti sempre al chiuso di uffici tranquilli». La sua dichiarazione non fu ripresa da “l’Unità”, così come cadde nel vuoto la richiesta dei trenta dissidenti di procedere ad «una vasta revisione interna al partito».
Quanto ai giornalisti, undici redattori di “Paese” e “Paese Sera”, iscritti al PCI, inviarono una lettera di protesta a “l’Unità” per non avere essa stigmatizzato l’invasione. La lettera non venne pubblicata. Tra i firmatari: Marco Cesarini Sforza, Felice Chilanti, Emanuele Rocco, Antonio Girelli, Guido Pallotta. Ingrao tentò una mediazione con il gruppo, ma non vollero incontrarlo e lasciarono i due giornali.
Un folto gruppo di intellettuali aderenti o vicini al PCI sottoscrisse un documento di condanna di quei «dirigenti del PCI che stanno calunniando la classe operaia ungherese». Seguivano cento firme, tra cui Natalino Sapegno, Vezio Crisafulli, Gaetano Trombatore, Paolo Spriano, Giuseppe Samonà. Nel documento si poteva leggere: «In Ungheria non si è avuto alcun movimento reazionario, ma un’ondata di collera derivante dal disagio economico, da amore per la libertà, dal desiderio di seguire una via nazionale verso il socialismo. In particolare noi deprechiamo l’intervento militare sovietico che contraddice ai princìpii che costantemente rivendichiamo nei rapporti internazionali». “L’Unità” ignorò il documento. Nei locali della redazione milanese de “l’Unità”, Giancarlo Pajetta aveva scritto un articolo filosovietico. I colleghi lo lessero, lo fecero a pezzi e lo gettarono nel cestino. Ma Pajetta telefonò a Ingrao dicendo di avere la copia in carta carbone e Ingrao ordinò che venisse stampato.
Ma alla fine Togliatti ebbe la meglio. Dall’8 al 10 dicembre 1956 si tenne all’EUR l’ VIII Congresso nazionale del PCI. I lavori si svolsero sotto lo sguardo gelido dei componenti la delegazione sovietica guidata da una donna, Caterina Furtseva. L’intero congresso si svolse sotto il segno dei fatti d’Ungheria e si concluse con l’approvazione in blocco dell’intervento sovietico e addirittura con l’esaltazione, pronunciata da Concetto Marchesi, dei massacri perpetrati dai sovietici ai danni della popolazione (80.000 morti, 176.000 rifugiati in Austria, 19.800 rifugiati in Jugoslavia). L’unico intervento critico fu quello pronunciato da Antonio Giolitti, ma rimase isolato.
Nel 1983 Renato Mieli, nella introduzione al suo libro «Il PCI allo specchio», scriverà: «Da quando il PCI ha incominciato a cercare di mettersi in regola con i requisiti di appartenenza all’area della democrazia occidentale, è trascorso ormai più di un quarto di secolo: un arco di tempo tanto lungo da far sì che il processo di revisione, che sembrava dovesse sgorgare dalla svolta kruscioviana del 1956, abbia finito per assumere una dimensione storica, oltreché politica. E infatti bisognerà attendere il 1981 per registrare lo “strappo” rispetto all’Urss e il timido riconoscimento dell’esaurirsi della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre da parte di Enrico Berlinguer».
9 commenti su “Memorie di un’epoca – I due italiani che si batterono per la libertà dell’Ungheria – di Luciano Garibaldi”
“Ci rivolgiamo anzitutto all’Italia», scrissero gli ungheresi «perché ……… tanto più che l’avanzata del bolscevismo minaccia anche l’Italia». L’appello non ricevette risposta e non fu neppure reso pubblico.
Adesso che gli ungheresi hanno visto e sentito che nel nostro paese un filosovietico, osannato dal papa, manovra le file per imporci i “suoi governi”, sanno perché quell’appello cadde nel vuoto.
Grazie per questo ricordo, che purtroppo ho dovuto studiare insieme ad altre nefandezze della seconda metà del secolo scorso (si parla solo dell’olocausto ebraico……), e continui a rinfrescare la memoria degli italiani, sperando che si sveglino prima che tocchi anche a loro……
grazie, Maria Teresa!
La Rivoluzione d’Ottobre non fu Russa ma Bolscevica questi odiavano il popolo russo (80 milioni di morti) la più grande catastrofe che ha subito il popolo russo.Lenin era ebreo massone,così la maggioranza dei grandi diriventi.
Ebreo e massone! Il concentrato dei nemici del genere umano.
L’opera meritoria di Sogno in Ungheria è conosciuta da pochi anche se, negli anni Settanta, militando in un partito sballato come il PLI, continuò la lotta anticomunista al pari di quella antifascista contro il MSI-DN. E qui fu di una ingenuità unica in quanto non si rese conto che il reale pericolo comunista era – da sempre – combattuto solo dalla Destra italiana, ovvero dal MSI-DN.
Un’altra puntualizzazione è d’obbligo: laddove Garibaldi scrive: «Per quanto concerne l’Italia, basterebbe rilevare che fu rifiutato persino un dibattito parlamentare che avrebbe sicuramente messo in difficoltà la Democrazia Cristiana rispetto al disegno, che aveva già incominciato a delinearsi fin dagli ultimi tempi di De Gasperi, dell’avvio di un “compromesso storico” con il Pci».
E’ d’obbligo precisare che:
il PCI ebbe le porte aperte da De Gasperi;
De Gasperi fu alleato del PCI;
De Gasperi favorì la crescita politica, elettorale, costituzionale ed istituzionale del PCI come leader della DC e come Presidente del Consiglio;
De Gasperi, insieme a Scelba ghettizzò il MSI a livello…
De Gasperi, insieme a Scelba ghettizzò il MSI a livello legislativo (legge Scelba approvata nel giugno del 1952, ossia dopo la grande avanzata del MSI alle elezioni amministrative tenutesi nel mese di maggio).
Questi sono dati di fatto oggettivi incontestabili.
L’anima modernista della DC ha rivelato il suo volto.
Il silenzio della DC grazie ad un patto di spartizione delle sfere di interesse?
La DC ha sempre valorizzato la famiglia? NO basta vedere il cammino della storia.
La DC ha sostenuto la scuola libera? Per una libertà di educazione? NO, anche quando era in maggioranza non poteva disturbare….
Possiamo continuare: credo che si debba mettere a fuoco la radice modernista (anche se oggi non è di moda parlarne) questa radice continua nei politici ex-DC, ex-Ulivo…..
Complimenti all’ottimo Luciano Garibaldi,validissimo giornalista!
Edgardo Sogno fu un grande Italiano.
Era un partigiano Monarchico. Fu un grande amico e consigliere del Re Umberto II. Ecco un altro punto da valutare seriamente:se Umberto II non fosse stato sconfitto dai brogli di Togliatti & C. nel 1946,oggi l’Italia sarebbe un Paese di gran lunga migliore. De Gasperi era il Premier di quel governo che detronizzo’ Umberto II perché voleva che il Re partisse subito.
Altrimenti i brogli sarebbero potuti venire alla luce.
Nel 1996,Caprara (fu segretario particolare di Togliatti) scrisse che il leader pci gli parlò di «voto pilotato»,per il referendum del 1946.
Perciò,se oggi siamo nelle peste,è perché dal 1946 fino ai giorni nostri i repubblicani ci hanno truffato,turlupinato. Che si sappia a futura memoria. Meglio la Monarchia,tutta la Vita!
una canzone dedicata ai patrioti Insorti Ungheresi si conclude con una strofa di tragica,agghiacciante verita’:”sull’orlo della nostra fossa,il mondo e’ rimasto seduto!”.Ritengo molto piu’ che vergognoso,oserei dire OSCENO che quello squallido individuo che risponde al nome di giorgio napolitano purtroppo eletto ben due volte presidente della repubblichetta italiota(per la serie errare e’ umano,perseverare e’ diabolico)si sia recato a rendere omaggio alla tomba di Imre Nagy e dei caduti Insorti senza che gli Ungheresi non abbiano avvertito il dovere di cacciarlo a pedate,considerata la posizione filosovietica di totale appoggio all’invasione espressa dal bolscevico all’epoca dei fatti.