di Dario Pasero (*)
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Molti di voi, penso e temo, conosceranno Roberto Benigni e la sua scellerata trovata di ammannire Dante (o meglio: una sua idea di Dante) al pubblico italiano. Personalmente, oltre alla scarsa considerazione che ho di Benigni come attore (sic), ho un altro motivo per non condividere le sue scelte dantesche: molti miei studenti, dopo aver “ammirato” le performances benignesche, pensavano che quello fosse il vero Dante e quella la maniera giusta per presentarlo, specie ai giovani; di conseguenza, il metodo seguito (da altri Colleghi e da me) a scuola risultava, a loro avviso, essere, a petto di quello del tosco attor (notare l’allitterazione, prego) comico, qualcosa di superato, di tedioso, degno di svillaneggiamento se non peggio.
Orbene, raggiunta finalmente la pensione, ritengo opportuno – e ne ringrazio quanti me ne danno spazio e possibilità – proporre ancora una volta un’immagine non caricaturale di “nostra maggior Musa”, presentando i passi e i personaggi che meglio incarnino gli ideali, cristiani e politici, del grande fiorentino.
Cominciamo da un argomento attualmente – come si dice – sotto i riflettori: la famiglia e l’ambiente politico-civile in cui la famiglia, vera e cristiana, può svilupparsi in modo armonioso e libero, in un fertile reciproco scambio di esperienze. Senza un ambiente politico-civile libero non può svilupparsi, come si deve, la famiglia, ma senza famiglie cristianamente e tradizionalmente incorrotte sotto l’aspetto morale lo Stato non può crescere né prosperare.
L’esempio più evidente di questa concezione dantesca sono i tre canti del Paradiso dedicati al suo trisavolo Cacciaguida (15°, 16°, 17°) e in particolare la seconda parte del 15°.
Siamo nel 5° cielo del Paradiso, il cielo percorso dall’orbita del pianeta Marte in cui, a Dante ed a Beatrice che lo accompagna, appaiono le anime degli “spiriti militanti”: i martiri (cioè testimoni) della Fede che, combattendo e morendo per il regno di Dio sulla terra, sono saliti direttamente al Paradiso. Queste anime, che appaiono come luci vivissime, sono disposte a forma di croce greca, cioè con tutti i bracci di eguale misura ed inscrivibile, pertanto, in un cerchio, simbolo della perfezione divina. Dal braccio destro di questa croce si stacca una luce che, percorrendo i due raggi (orizzontale e verticale) della croce stessa, si presenta davanti a Dante. Dopo alcune parole latine con cui, rivolgendosi a Dio, Lo ringrazia per il bene che gli ha elargito facendolo incontrare col suo discendente e dopo un dialogo tra l’anima ed il poeta, razionalmente costruito su sillogismi e figure retoriche di altissima ricchezza immaginifica, l’anima gli dichiara di essere il suo trisavolo, ma senza ancora rivelargli il suo nome. Alla domanda esplicita del poeta relativa al nome, la luce inizia un monologo che occupa tutta la seconda parte del canto (52 vv., dal 97 al 148), partendo dalla descrizione della Firenze dei suoi tempi, cioè gli anni tra la fine dell’XI e la metà del XII secolo (Fiorenza dentro da la cerchia antica,/ ond’ella toglie ancora e terza e nona,/ si stava in pace, sobria e pudica; vv. 97-99), in cui la città viveva appunto “in pace, sobria e pudica” (e vi prego di tenere a mente questi tre concetti, perché li ritroveremo, di poco mutati nella forma, ma uguali nella sostanza, nella parte conclusiva del discorso dell’anima).
Seguono quindi 4 terzine (vv. 100-111) in cui domina la negazione anaforica: ognuna di esse, infatti, inizia con l’avverbio negativo non, ripetuto due volte anche al loro interno, con l’intento di sottolineare tutto ciò che di male non esisteva a quei tempi, ma che si è fatto poi strada fino a dominare la Firenze attuale. In realtà l’attenzione del poeta si concentra sui vizi morali riguardanti in particolare l’aspetto suntuario (cioè quello relativo alle spese ed al lusso) e la condizione famigliare. Ecco allora, per cominciare, il riferimento ai gioielli ed agli abiti, soprattutto femminili (si sa che, a partire dal poeta greco arcaico Semonide d’Amorgo, autore di una famosa satira misogina, è necessario chercher la femme…), passando poi alla malaugurata abitudine di far sposare le figlie femmine in modo tale che questi matrimoni spaventano i genitori eccedendo la giusta misura nelle due direzioni opposte (troppo in qua, cioè presto, per l’età delle spose e troppo in là, cioè in modo smisurato, per la quantità delle doti); si accenna quindi al triste fenomeno delle case “di famiglia vòte”, cioè le case divenute ormai (ai tempi di Dante) troppo grandi per famiglie sempre meno numerose (qualcuno, ma meno efficacemente, pensa alle case svuotate dalle condanne all’esilio, ma in questo contesto la condanna del poeta è di tipo morale e non politico). Sempre di ordine morale il rimprovero mosso ai vizi della carne, personificati nella figura del lussurioso imperatore assiro Sardanapalo (che ha ormai insegnato a fare tutto ciò che “in camera si puote”). Si ritorna poi al lusso ed alle spese paragonando la ricchezza del fiorentino monte Uccellatoio (luogo, evidentemente, di soggiorno e di villeggiatura di gran lusso) che, ora, sta rivaleggiando con il romano monte Mario, ma che tra non molto andrà in rovina esattamente come (anzi in misura anche maggiore) l’altura romana.
Tutto ciò mancava nella Firenze del trisavolo di Dante, ma non solo: al catalogo, potremmo dire, “in negativo” si oppone quello “in positivo” delle figure che, con la loro presenza ed il loro autorevole esempio, facevano grande, pacifica, sobria e pudica Fiorenza. Ecco allora comparirci dinanzi Bellincion Berti (il cui nome, già maestoso di per sé, si staglia ancora meglio come incipit del v. 112; ed anche la sintassi aiuta: posto all’inizio sembra essere il soggetto, in posizione dominate, mentre è il complemento oggetto del verbo vidi), che sottolinea la sua umile maestà moralmente costruita col vestire semplicemente di “cuoio ed osso”, senza fronzoli né ornamenti; e d’altra parte (come il poeta ha già sostenuto al v. 102) non v’erano allora abiti o accessori che “apparissero” – notate: non “fossero” (anche la scelta lessicale fa grandissimo uno scrittore spiegandoci fino in fondo il suo pensiero) – di valore più grande della persona che li indossava. Degna della grandezza di Bellincione è la figura della moglie, che risplendeva della sua bellezza naturale, senza bisogno di trucco e di fard (“sanza il viso dipinto” del v. 114), così come altrettanto degni suoi vicini sono “quel d’i Nerli e quel del Vecchio”, altri rappresentanti di antiche famiglie fiorentine, che si accontentano di abiti di pelle (“la pelle scoperta”), senza l’aggiunta di altra guarnizione o abbellimento sartoriale (vv. 115sg.). Ciò che, tuttavia, più interessa a Dante è la semplicità e la moralità della vita del tempo, che si specchiavano in quella delle donne e delle famiglie.
Partendo dall’esempio delle due ultime figure citate si ricorda come le loro donne fossero tutte impegnate nel lavoro tipicamente e sanamente familiar-donnesco della filatura e tessitura (“fuso e pennecchio” del v. 117: ricordiamo come già nella Roma antica sulle lapidi funerarie delle matrone si poteva leggere il loro massimo elogio possibile: domi mansit, casta vixit, lanam fecit, “rimase in casa, visse casta, filò la lana”). Dall’immagine concreta delle donne “di una volta”, impegnate nei lavori domestici, si sale all’elogio ideale della vita di allora; fortunate erano quelle donne (Oh fortunate, v. 118: come non pensare ai virgiliani O Fortunatos… sua si bona norint di Georgiche II, v. 458 e Felix, heu nimium felix di Eneide, IV, v. 657) perché ciascuna di esse era certa di essere sepolta, una volta morta, nella patria e non in terra straniera (v. 119) e inoltre nessuna di esse era abbandonata dal marito (v. 120) che per desiderio di guadagno (auri sacra fames: ancora Virgilio!) la lasciava per andare a commerciare in Francia. Con questa immagine Dante ci anticipa ciò che ci confermerà nel canto 16°: una delle massime pesti del tempo suo era costituita per lui dalla borghesia, dalla sua mentalità “commerciale” e dalla sua ascesa ai posti di comando del comune. E quindi ecco il quadro perfetto della famiglia secondo l’ideale dantesco: la donna giovane, la madre, che vegliava custodendo la culla dell’ultimo nato usando, per tenerlo tranquillo, le vecchie e tradizionali parole già usate dai genitori con la sua generazione (vv. 121sg.), mentre la donna più anziana, la nonna, si dedicava alla filatura, raccontando, insieme a parenti e servi (“la famiglia”, v. 125), le vecchie e tradizionali storie che raccontavano i miti e le leggende della fondazione della città (sono i racconti, come dicono “color che sanno”, “eziologici”).
Si conclude questa sezione, che precede la rivelazione conclusiva del nome dell’anima, ancora una volta con un paragone, tra antico e nuovo, e ancora una volta è l’antico il vincente (vv. 127-129): personaggi di bassissima solidità morale del tempo di Dante in quegli anni antichi sarebbero stati considerati una “meraviglia” (in realtà, nel nostro lessico, una “stranezza”, se non addirittura una “mostruosità”) esattamente come ora (si intenda: negli anni danteschi…) sarebbero delle “meraviglie” (sempre “stranezze”) persone di grandissima levatura morale come Cincinnato (l’onestà politica) e la madre dei Gracchi, Cornelia (quella della famiglia).
Arriviamo (ed era ora: diciamocelo…) a conoscere il nome di questo personaggio così fondamentale nel mondo morale e civile di Dante. Infatti, terminata la descrizione del modo di vivere dei suoi tempi, l’anima conclude dicendo che Maria (invocata con alte grida da sua madre come protettrice delle partorienti e dei parti, nel cui ruolo aveva soppiantato, nella verità cristiana, la figura pagana di Giunone Lucina) aiutò sua madre a darlo alla luce in una città così idealmente perfetta; anzi, l’anima distingue a questo punto (vv. 130-132) il “viver di cittadini” (v. 131: cioè l’attività politica, la latina res publica) che era “riposato e bello” (cioè tranquillo, ordinato: riprendiamo, come vi avevo anticipato, l’“in pace” del v. 99), la “cittadinanza” (v. 132: cioè l’insieme degli abitanti, la latina civitas) che era “fida” (cioè leale: il “sobrio” di v. 99) e infine l’“ostello” (v. 132: cioè la città come insieme di edifici, la latina urbs) che era “dolce” (cioè gradevole: il “pudica” di v. 99). Ordunque, egli qui nacque, contestualmente alla nascita fu battezzato e così “insieme fui cristiano e Cacciaguida” (v. 135) nel vostro, e giustamente (in linea con tutto il discorso precedente) Dante sottolinea “antico”, battistero.
Le ultime parole dell’anima sono dedicate infine a descrivere da una parte la sua famiglia (i fratelli e la moglie, di origine ferrarese della famiglia degli Aldaghieri, da cui si originò, attraverso il bisavolo di Dante, Aldighiero, il cognome degli Alighieri), dall’altra la sua attività militare di cavaliere (creato tale dall’imperatore Corrado III) che si concluse in forma altissima di sacrificio con la partecipazione alla crociata (sempre con l’imperatore Corrado) e la morte in essa ad opera degli infedeli, morte come martire della fede che lo ha portato immediatamente, senza bisogno di alcuna sosta in Purgatorio, qui in Paradiso (“e venni dal martiro a questa pace” del v. 148, che, non a caso con la parola “pace”, chiude il canto e questa prima parte dell’episodio dell’incontro tra Cacciaguida e Dante).
Non mancano, negli ultimi sette versi (142-148), anche gli spunti polemici, di cui Dante è sottilmente maestro: degli infedeli, detti appunto “gente turpa” (v. 145), si sottolinea la “nequizia” (la “malvagità” al v. 142), ma la colpa nel loro occupare i luoghi santi è da ascriversi solo parzialmente a loro stessi, poiché buona parte di tale colpa è da assegnare invece alle gerarchie ecclesiastiche e segnatamente ai vari papi che si sono succeduti sul trono di Pietro (“per colpa d’i pastor” del v. 144), e specialmente di Bonifacio VIII, di cui già sono state additate le responsabilità e le colpe di questa situazione al c. XXVII dell’Inferno (vv. 85-90). Non manca, infine, il riferimento, spesso presente nei canti del Paradiso, alla fallacia ed alla transitorietà del mondo e dei suoi beni, soprattutto se messi in raffronto con le gioie del Paradiso (vv. 146-148).
Il Paradiso è il luogo perfetto della visione di Dio per le anime, ma anche la Firenze dei tempi del trisavolo di Dante è, per il nostro poeta, la città ideale, ideale certo ma che si è concretamente (scusate l’ossimoro) e storicamente realizzata sulla terra, quasi prefigurazione della Gerusalemme celeste che ha accolto, dopo che in quella Firenze aveva vissuto, il martire della fede Cacciaguida.
Concludendo. Quando si dice che Dante è un “classico” (così come Omero, Eschilo e pochi altri tra i poeti) intendiamo che le sue parole valevano ai suoi tempi così come possono valere ancora oggi. Quando egli dunque confronta presente e passato, e non con il banale intento del laudator temporis acti, cioè di un elogio acritico del tempo passato, ma perché realmente e razionalmente convinto che il male odierno derivi dall’aver il presente abbandonato la moralità di un tempo, noi possiamo prenderlo come guida: una guida che, in appoggio (e non certo in sostituzione…) delle parole e dell’insegnamento di una Chiesa che sappia ancora svolgere il suo compito, ci aiuta a capire come solamente tornando agli elementi fondanti della nostra civiltà (così vivi nel passato, così “smorti” nel presente) noi potremo nuovamente vivere in un mondo più vicino ai veri valori della civiltà cristiana.
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(*) Membro del Comitato Scientifico – Sezione filologico-letteraria dell’Associazione Culturale “John Henry Newman”
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PARADISO
CANTO XV
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Benigna volontade in che si liqua
sempre l’amor che drittamente spira,
3 come cupidità fa ne la iniqua,
silenzio puose a quella dolce lira,
e fece quïetar le sante corde
6 che la destra del cielo allenta e tira.
Come saranno a’ giusti preghi sorde
quelle sustanze che, per darmi voglia
9 ch’io le pregassi, a tacer fur concorde?
Bene è che sanza termine si doglia
chi, per amor di cosa che non duri
12 etternalmente, quello amor si spoglia.
Quale per li seren tranquilli e puri
discorre ad ora ad or sùbito foco,
15 movendo li occhi che stavan sicuri,
e pare stella che tramuti loco,
se non che da la parte ond’ e’ s’accende
18 nulla sen perde, ed esso dura poco:
tale dal corno che ’n destro si stende
a piè di quella croce corse un astro
21 de la costellazion che lì resplende;
né si partì la gemma dal suo nastro,
ma per la lista radïal trascorse,
24 che parve foco dietro ad alabastro.
Sì pïa l’ombra d’Anchise si porse,
se fede merta nostra maggior musa,
27 quando in Eliso del figlio s’accorse.
«O sanguis meus, o super infusa
gratïa Deï, sicut tibi cui
30 bis unquam celi ianüa reclusa?».
Così quel lume: ond’ io m’attesi a lui;
poscia rivolsi a la mia donna il viso,
33 e quinci e quindi stupefatto fui;
ché dentro a li occhi suoi ardeva un riso
tal, ch’io pensai co’ miei toccar lo fondo
36 de la mia gloria e del mio paradiso.
Indi, a udire e a veder giocondo,
giunse lo spirto al suo principio cose,
39 ch’io non lo ’ntesi, sì parlò profondo;
né per elezïon mi si nascose,
ma per necessità, ché ’l suo concetto
42 al segno d’i mortal si soprapuose.
E quando l’arco de l’ardente affetto
fu sì sfogato, che ’l parlar discese
45 inver’ lo segno del nostro intelletto,
la prima cosa che per me s’intese,
«Benedetto sia tu», fu, «trino e uno,
48 che nel mio seme se’ tanto cortese!».
E seguì: «Grato e lontano digiuno,
tratto leggendo del magno volume
51 du’ non si muta mai bianco né bruno,
solvuto hai, figlio, dentro a questo lume
in ch’io ti parlo, mercé di colei
54 ch’a l’alto volo ti vestì le piume.
Tu credi che a me tuo pensier mei
da quel ch’è primo, così come raia
57 da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei;
e però ch’io mi sia e perch’io paia
più gaudïoso a te, non mi domandi,
60 che alcun altro in questa turba gaia.
Tu credi ’l vero; ché i minori e ’ grandi
di questa vita miran ne lo speglio
63 in che, prima che pensi, il pensier pandi;
ma perché ’l sacro amore in che io veglio
con perpetüa vista e che m’asseta
66 di dolce disïar, s’adempia meglio,
la voce tua sicura, balda e lieta
suoni la volontà, suoni ’l disio,
69 a che la mia risposta è già decreta!».
Io mi volsi a Beatrice, e quella udio
pria ch’io parlassi, e arrisemi un cenno
72 che fece crescer l’ali al voler mio.
Poi cominciai così: «L’affetto e ’l senno,
come la prima equalità v’apparse,
75 d’un peso per ciascun di voi si fenno,
però che ’l sol che v’allumò e arse
col caldo e con la luce, è sì iguali,
78 che tutte simiglianze sono scarse.
Ma voglia e argomento ne’ mortali,
per la cagion ch’a voi è manifesta,
81 diversamente son pennuti in ali;
ond’io, che son mortal, mi sento in questa
disagguaglianza, e però non ringrazio
84 se non col core a la paterna festa.
Ben supplico io a te, vivo topazio
che questa gioia prezïosa ingemmi,
87 perché mi facci del tuo nome sazio».
«O fronda mia in che io compiacemmi
pur aspettando, io fui la tua radice»:
90 cotal principio, rispondendo, femmi.
Poscia mi disse: «Quel da cui si dice
tua cognazione e che cent’anni e piùe
93 girato ha ’l monte in la prima cornice,
mio figlio fu e tuo bisavol fue:
ben si convien che la lunga fatica
96 tu li raccorci con l’opere tue.
Fiorenza dentro da la cerchia antica,
ond’ella toglie ancora e terza e nona,
99 si stava in pace, sobria e pudica.
Non avea catenella, non corona,
non gonne contigiate, non cintura
102 che fosse a veder più che la persona.
Non faceva, nascendo, ancor paura
la figlia al padre, ché ’l tempo e la dote
105 non fuggien quinci e quindi la misura.
Non avea case di famiglia vòte;
non v’era giunto ancor Sardanapalo
108 a mostrar ciò che ’n camera si puote.
Non era vinto ancora Montemalo
dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
111 nel montar sù, così sarà nel calo.
Bellincion Berti vid’ io andar cinto
di cuoio e d’osso, e venir da lo specchio
114 la donna sua sanza ’l viso dipinto;
e vidi quel d’i Nerli e quel del Vecchio
esser contenti a la pelle scoperta,
117 e le sue donne al fuso e al pennecchio.
Oh fortunate! ciascuna era certa
de la sua sepultura, e ancor nulla
120 era per Francia nel letto diserta.
L’una vegghiava a studio de la culla,
e, consolando, usava l’idïoma
123 che prima i padri e le madri trastulla;
l’altra, traendo a la rocca la chioma,
favoleggiava con la sua famiglia
126 d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
Saria tenuta allor tal meraviglia
una Cianghella, un Lapo Salterello,
129 qual or saria Cincinnato e Corniglia.
A così riposato, a così bello
viver di cittadini, a così fida
132 cittadinanza, a così dolce ostello,
Maria mi diè, chiamata in alte grida;
e ne l’antico vostro Batisteo
135 insieme fui cristiano e Cacciaguida.
Moronto fu mio frate ed Eliseo;
mia donna venne a me di val di Pado,
138 e quindi il sopranome tuo si feo.
Poi seguitai lo ’mperador Currado;
ed el mi cinse de la sua milizia,
141 tanto per bene ovrar li venni in grado.
Dietro li andai incontro a la nequizia
di quella legge il cui popolo usurpa,
144 per colpa d’i pastor, vostra giustizia.
Quivi fu’ io da quella gente turpa
disviluppato dal mondo fallace,
147 lo cui amor molt’anime deturpa;
e venni dal martiro a questa pace».
5 commenti su “Nostra maggior Musa (Riflessioni “minime” sulla Commedia dantesca) – di Dario Pasero”
Leggendo gli ultimi versi di questo canto mi domando come mai Dante ancora non sia stato tacciato di islamofobia e continui ad essere tollerato nelle scuole. Se qualcuno ne informerà la ministra dell’istruzione spiegandole cosa sia la Divina Commedia e illustrandole l’Autore, allora ne vedremo delle belle e nella migliore delle ipotesi accadrà che l’ora di Dante diventerà opzionale come quella di Religione.
Benigni ha raggiunto l’apice della poesia con il Film ” LA VITA E’ BELLA”, dopodiché Stendiamo un velo pietoso !
Anche quel film altro non era che un viscido ammiccamento alla vulgata corrente, ossia che il popolo eletto, i fratelli maggiori, siano le uniche ed eterne vittime della Storia, e perciò stesso sempre giustificati alle più turpi azioni politiche e morali. Il fatto poi che da 70 anni abbondanti detengano le leve del potere mediatico e culturale a livello mondiale, inclusa (anzi soprattutto) l’industria del cinema, spiega l’ovvio e conseguente Oscar e l’incensazione a livello globale di questo scaltro attorucolo.
GRAZIE di cuore al Prof. Pasero per quest’opera meritoria, che seguirò con interesse nel suo dipanarsi.
Becerume, nient’altro che cialtroneria il “Dante” di Benigni. Nell’estate del 2006 il guitto si impalcò a Santa Croce per una sua “lectura Dantis”. Sproloqui e luoghi comuni. Tuttavia il Sole 24 Ore aveva concordato, con “l’esegeta” 13 puntate domenicali con i riassunti delle più importanti letture. Ma si fermò alla 4^ perché l’indignazione dei lettori e due lettere di protesta – la mia e del prof. Giorgio Inghilese (cfr. La Domenica 10 settembre 2066) pubblicate unitamente a un articolo di Piero Boitani, indussero la Direzione a sospendere quella pagliacciata risparmiando spazio per cose più utili e stizza nei lettori. Un giullare che, sul palco di RAI1, con linguaggio fecale irride Madonne, padri Pii, Chiesa, Papi, che saltabeccando come un invasato va a ravanare nella patta degli uomini o sotto la gonna delle donne, che si esibisce in una serqua belliana di volgarità gineco/andrologiche, questo armeggione autoproclamatosi “dantista”, ha ancora il coraggio di pronunciare “Vergine e Madre, figlia del tuo figlio”. E c’è, purtroppo chi lo ammira.
Purtroppo le pagliacciate di Benigni fanno parte del cattivo gusto che imperversa nella “cultura” del nostro tempo (lo scrivo tra virgolette perche non la ritengo Cultura, ma ignoranza, maleducazione, grossolanità di modi e di pensiero, empietà nel trattare gli argomenti per molti sono sacri). Lo vediamo da tante manifestazioni: dalle parolacce che dominano ovunque, alla scuola che non sa insegnare, ai genitori che non sanno educare, agli studenti universitari che non sanno scrivere in italiano, all’arrogante “dittatura del desiderio” che contrabbanda come buoni e giusti gli istinti più bassi e vergognosi. Ma è proprio questo che piace al pubblico e ha decretato il successo di Benigni. Io ho visto solo 10 minuti della sua trasmissione, poi ho cambiato canale.