di Lino Di Stefano
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I componimenti del poeta di San Mauro – ivi comprese le opere latine – sono, generalmente, produzioni perfette, degne, cioè di rimanere come modello letterario; nella fattispecie, ‘L’assiuolo’ e ‘Lavandare’ rientrano nella citata categoria quali lavori che si elevano ad altezze quasi irraggiungibili. Pubblicata sulla Rivista ‘Il Marzocco’ nel 1897, la poesia ‘L’assiuolo’ rappresenta un paesaggio notturno vivacizzato da enigmatiche presenze che, a loro volta, trovano il corrispettivo nello spirito esacerbato del poeta.
E subito, la prima strofa si apre con quell’interrogativo: “Dov’era la luna?”, molto efficace in quanto ha lo scopo di richiamare l’attenzione del lettore per ricordargli la particolare temperie ambientale in cui è immerso. Ed è una situazione in cui gli elementi della natura sono quasi personalizzati solo se si pensi al modo in cui, nel caso di cui si parla, il ‘mandorlo’ e il ‘melo’ si elevano per meglio vedere la luna.
Ed eccola come si presenta la natura: con “soffi di lampi”, cioè, provenienti da “un nero di nubi”, con “stelle rare” e mugghio del mare. E qui, c’è una prima osservazione da fare ed ovverosia che il Pascoli non usa l’espressione ‘nubi nere’, bensì la forma “nero di nubi” per meglio caratterizzare il cielo che in quel momento si distingue per la nerezza di questa sua macchia.
Anche il motivo del firmamento, con rade stelle, è un tema non infrequente nelle problematiche dei poeti, italiani e stranieri, come, per fare solo qualche esempio, Leopardi, l’austriaco Trakl, lo stesso Pirandello e numerosi altri. A tale singolare situazione della natura – interrotta tre volte dal ‘chiù’ dell’uccello notturno – si contrappone il particolare stato d’animo dell’artista, il cui cuore sussulta al ricordo di un grido misterioso. Da qui, la concomitanza fra l’interiorità del poeta e l’esteriorità del verso dell’uccello.
A questo punto – vale a dire all’inizio della terza strofa – la situazione precipita perché la natura con le sue “lucide vette”, l’agitato vento e lo sconquasso delle cavallette si accosta a quelle invisibili porte forse definitivamente sbarrate. Ed ecco il mistero, motivo molto frequente nella poetica pascoliana – ad esempio, “quest’atomo opaco del male” di ‘X agosto’ – che torna prepotente a farsi sentire, mentre il verso dell’assiuolo che all’inizio era ‘una voce’ si trasforma, prima, in ‘singulto’ e, poi, in ‘pianto di morte’.
Il ciclo si chiude lasciando il lettore al cospetto di un arcano sempre più fitto ed evanescente; evanescente come quella “nebbia di latte” che avvolge quasi l’intero cosmo con l’uomo alla ricerca di un varco capace di squarciare almeno una parte dell’incomprensibilità dell’esistenza. Anche in questa lirica, in definitiva, è da notare il sapiente impiego, da parte del poeta, della terminologia la quale risulta sempre incisiva e pregnante visto, altresì, che essa raggiunge lo scopo che egli si propone.
Scopo volto, in ultima analisi, almeno in tale componimento, a tracciare un mirabile parallelo fra il dinamismo della natura e il sussulto del proprio cuore scosso da tante sofferenze, da tanto dolore e da tante tragedie. E, allora, come ha osservato, giustamente, una studiosa, “il richiamo dell’assiuolo si precisa nel suo esatto significato: è pianto di morte il ‘chiù’, ritornello e parola, tema che iterandosi in modo ciclico e conclusivo, ‘combatte’ liricamente la rottura con la propria continuità” (Marisa Strada).
Tratto dalla raccolta ‘Myricae’, questa breve, quanto significativa, poesia, ‘Lavandare’, è un quadretto in cui è racchiusa una particolare situazione agreste; non a caso, l’esordio si rivela schiettamente georgico con una triste campagna autunnale solo parzialmente arata. Nessun sentore di uomini tutt’intorno, ma qualche indizio resta considerato che il terreno è rimasto, appunto, “mezzo grigio e mezzo nero”; alcune zolle, infatti, sono state rivoltate ed altre no. L’aratro senza buoi e senza l’agricoltore che lo regge diventa uno strumento inutile, ecco perché esso spicca in mezzo all’umidità mattutina che lo avvolge nella solitudine dell’ambiente circostante.
A tale calma e a tale sconsolata mestizia, il poeta oppone subito un’altra situazione, quella, cioè, proveniente da un ‘habitat’ vicino e consistente, per la precisione, nel canto ritmico delle lavandaie; canto che si fonde – quasi in un armonioso concerto – con le risciacquate dei panni sottoposti a lavaggio. E, al riguardo, bisogna subito aggiungere che i vocaboli usati dal poeta sono particolarmente efficaci e pregnanti: ‘lavandare’, ‘sciabordare’, ‘tonfi spessi’, ‘cantilene’.
Essi rendono quasi alla perfezione la scena che si sviluppa mediante movimenti cadenzati in quanto i panni vengono lavati, stropicciati e rituffati nella corrente con un dinamismo tale da formare quasi un coro di particolare efficacia rappresentativa. Ma, se l’intero bozzetto è frutto della sapienza idillica del poeta, è anche vero che l’ultima strofa contiene elementi interessanti sia sul piano del lessico, sia, ancora, sul piano dell’intimo significato del messaggio pascoliano.
Riuscitissimo si presenta, ad esempio, quel “nevica la frasca” che ci fa quasi vedere con gli occhi le foglie che cadono dai rami come neve, ma altrettanto riuscita risulta la similitudine fra l’aratro, forse dimenticato in mezzo alla maggese, e la donna rimasta sola dopo la partenza del suo uomo. La critica più autorevole ha sempre conferito molta considerazione alla lirica in questione in quanto vi ha saputo apprezzare non soltanto lo spirito idillico che la anima, ma pure l’andatura melanconica che la contraddistingue.
Anche Luigi Russo parla di “tristezza idillica” della poesia sebbene aggiunga che parimenti qui “la tristezza è scoperta, e fusa: il campo nel suo aspetto d’autunno inoltrato (quanti autunni e quante poche primavere in queste ‘Myricae’), quell’aratro dimenticato e sopra a tutto il canto delle stornellatrici”.
1 commento su “Rileggendo i classici. Due carmi di Giovanni Pascoli – di Lino Di Stefano”
Grazie per questo articolo. Mi viene quasi voglia di riprendere in mano il Pascoli, così visceralmente detestato ai tempi della scuola, ma tant’è, si cresce…