di Giampaolo Rossi
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“Con i suoi zigomi alti, gli occhi stretti e la lunga veste marrone, Bin Laden sembra in tutto e per tutto il guerriero di montagna della leggenda mujaheddin”.
Era il 1993 quando Robert Fisk, forse il più importante inviato di guerra britannico, incontrava il futuro nemico numero uno dell’Occidente in un piccolo villaggio del Sudan.
Colui che era stato tra gli artefici del crollo dell’Unione Sovietica in Afghanistan, e che da lì a poco sarebbe diventato la mente dell’11 Settembre, si mostrava per la prima volta alla stampa occidentale.
L’incontro tra il grande giornalista inglese e l’eroe dell’Afghanistan trovò corpo in una serie di articoli pubblicati su The Indipendent, il quotidiano per il quale Fisk ancora oggi scrive.
Gli ingredienti per costruire l’immagine romantica di Bin Laden c’erano tutti: era stato uno dei capi della lotta mujahedin contro i sovietici in Afghanistan; era il ricco sceicco che aveva messo i suoi beni al servizio della causa islamica; era lo stratega sul campo di battaglia amato da quei combattenti che lui aveva reclutato e addestrato; era l’umile eroe che non esitava ad affermare: “si, io ho combattuto in Afghanistan ma i miei fratelli mussulmani hanno fatto molto più di me: loro sono morti mentre io sono vivo”; era il miliardario che dopo la guerra era andato a vivere in Sudan in una modesta casa a Jeddah, con le sue quattro mogli; era l’impavido fedele di Allah che ora si dedicava a migliorare le condizioni di vita del suo popolo.
Fisk fu affascinato dalla figura di Bin Laden, dai suoi mujaheddin “barbuti, taciturni, mai più lontani di due passi dall’uomo che li ha reclutati, li ha addestrati e li ha inviati a distruggere l’esercito sovietico”. Ma dopo l’11 Settembre prese le distanze da questa fascinazione e non poteva non farlo nel momento in cui Bin Laden era diventato il demone contro il quale l’Occidente aveva scatenato la sua vendetta.
Ma a parti invertite, di fronte agli orrori commessi dall’Occidente, intellettuali e “liberi pensatori” non sono disposti a rimettere in discussione le loro certezze e le loro “fascinazioni”.
Lo vediamo in questi giorni in cui i media occidentali hanno silenziato la notizia che Slobodan Milosevic è stato assolto dall’accusa di crimini di guerra dallo stesso tribunale dell’Aja che doveva condannarlo.
MILOSEVIC “COME HITLER”
Eppure in quegli stessi anni, per politici e intellettuali, il presidente della Serbia era diventato il nuovo Hitler, contro il quale scatenare la terribile propaganda del mainstream occidentale che giustificasse l’intervento della Nato.
Sullo stesso giornale di Fisk, Ken Livingstone (il laburista più di sinistra in Gran Bretagna) scriveva editoriali sul perché non era sbagliato“paragonare Milosevic ad Hitler”; e in Italia gli intellettuali della sinistra radical-chic non avevano pudori ad accusare il leader serbo di genocidio. Erano in tempi in cui Carla Del Ponte, l’inquisitrice di Milosevic, passava per l’eroina senza macchia e senza paura.
Quando Milosevic è morto in prigionia nel 2006, sul Corriere della Sera, Gianni Riotta, uno dei menestrelli dell’informazione democraticamente addomesticata, inconsapevolmente svelò il gioco; in un editoriale in cui criticava le lungaggini del processo all’Aja che non avevano permesso di condannare il leader serbo prima che morisse, spiegò che il vero tribunale non è quello giudiziario (che dovrebbe essere il fondamento del diritto occidentale), ma il “foro globale dell’opinione pubblica”.
Quindi, quando un avversario accusato dall’Occidente risulta innocente, basta silenziare la democratica opinione pubblica così che la giustizia dei vincitori trionfi sulla giustizia della verità.
I MEDIA: IL GIOCO ILLUSIONISTA DI UNA DITTATURA
Bin Laden non doveva essere catturato vivo (nonostante gli Usa avessero la possibilità di farlo); forse affinché non sopravvivessero altre fascinazioni che qualcun altro ebbe con lui nel tempo.
Milosevic non doveva sopravvivere al suo processo; le lungaggini giudiziarie non furono un errore dell’inchiesta ma la strategia affinché la verità emergesse solo dopo la sua morte rendendo quindi inefficace qualsiasi rivendicazione sull’operato della Nato e sulla prima “guerra umanitaria” occidentale (morte che, ricordiamolo, avvenne in circostanze mai del tutto chiarite).
In entrambi i casi i media hanno svolto uno straordinario ruolo di manipolazione perché essi non sono solo strumento del potere; sono essi stessi il potere. I media possono nascondere i mostri e tirarli fuori dal cilindro quando occorre o li possono creare con la stessa identica facilità con cui possono farli uscire dai riflettori della storia.
Nel loro essere prestigiatori, i media democratici sono il gioco illusionista di una dittatura.
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Su Twitter: @GiampaoloRossi
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