IL SIGNIFICATO DELLE PAROLE: EUTANASIA / 2 – di Giacomo Rocchi

di Giacomo Rocchi

fonte: notizie PRO-LIFE


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Cosa si intende quando si parla di “eutanasia”? Ha ragione Beppino Englaro (la cui intervista su Il Venerdì di Repubblica del 27/7/2012 abbiamo iniziato a commentare nel precedente post), quando sostiene che l’uccisione della figlia Eluana, con l’eutanasia “non c’entra un fico secco”?

eeProviamo a fare un elenco dei casi che, in qualche modo, hanno a che fare con l’eutanasia: quella eugenetica messa in atto dal regime nazista (e non solo da quello), l’uccisione per pietà dei malati sofferenti o l’aiuto prestato al loro suicidio, il diritto al suicidio per i sani, il trattamento dei malati terminali e il divieto di accanimento terapeutico, la mancata rianimazione dei neonati estremamente prematuri, l’omissione di terapie e di sostegno vitale ai disabili fisici o a quelli psichici (compresi quelli nel cosiddetto “stato vegetativo”), il rifiuto delle terapie e/o del sostegno vitale da parte dei pazienti o dei sani, la facoltà per i tutori e i genitori di impedire terapie per gli interdetti e i figli minori, il testamento biologico, le dichiarazioni anticipate di trattamento.

Beppino Englaro chiarisce, in altri passaggi dell’intervista, quali sono i tratti distintivi della sua vicenda, quelli che la renderebbero diversa da un caso di eutanasia: la sentenza della Cassazione “ci ha dato il diritto a dire no alle cure”; egli aveva vissuto la “tragedia della responsabilità. Quali scelte fare e quali no in una situazione limite”; ma “noi genitori non avevamo dubbi sulla decisione di rifiutare le cure”. Il motivo per cui non vi sono stati altri “casi Englaro”? “Perché occorreva, per sentenza, che ci fosse una condizione irreversibile e la certezza della volontà del paziente. Quanti giovani si sono espressi sul rifiuto delle cure? Lei, però, l’aveva fatto”. Secondo Beppino Englaro, infatti, “Eluana, che era forte e intelligente, pur essendo credente, metteva al centro non la sacralità, ma i diritti umani di libertà, di responsabilità e di scelta”.

La parola d’ordine, quindi, è: diritto di rifiutare le cure mediche, libertà di questo rifiuto; questo è il risultato “giusto” che si ha quando “diritto e medicina si incontrano” ; Englaro sostiene di avere voluto questo incontro fin dal 1992, anno dell’incidente della figlia.

Se rileggiamo l’elenco fatto all’inizio, quindi, possiamo intuire quali siano le pratiche che Beppino Englaro qualifica come eutanasia, “che è un reato”: quella eugenetica, ovviamente; ancora, l’uccisione diretta dei pazienti (il rifiuto delle cure può portare soltanto ad ometterle, non può portare ad azioni specificamente volte alla morte del paziente); poi la sospensione delle cure e delle terapie nei confronti di soggetti che non l’hanno chiesto; infine – parrebbe di capire – l’aiuto al suicidio o l’omicidio di chi l’ha chiesto per ragioni di carattere non medico.

La “memoria di Eluana” – ora che è stata uccisa, è memoria di tutti, e non solo del padre – impone di scavare più a fondo, di non fermarsi alle parole d’ordine di chi ha avuto ragione in un giudizio privo di un effettivo contraddittorio (il curatore speciale nominato proprio per garantirlo, si associò alla richiesta del tutore di far morire la figlia fin dalla prima udienza) e di sottolineare qualche punto che Beppino Englaro lascia cadere nell’intervista: l’uso dell’espressione “cure”, per ricomprendere acqua e cibo nelle “terapie”, così da presentare il rifiuto opposto dal tutore come attinente al campo medico; ma anche la duplicazione dei soggetti che avrebbero deciso (la figlia che “si era espressa sul rifiuto delle cure” o i genitori, che si sono assunti la “responsabilità di prendere la decisione di rifiutare le cure”?); e, soprattutto, la qualificazione della condizione di Eluana Englaro dopo l’incidente come “situazione limite”, “zona di confine tra vita e morte”. Sappiamo bene che, fin dal 1992, Beppino Englaro riteneva la figlia “morta” (“Ogni giorno, da quasi diciassette anni, facciamo visita alla sua tomba: nostra figlia è morta il giorno dell’incidente; non sarà la sepoltura del suo corpo a dirci che lei non c’è più”, La Stampa, 14 novembre 2008).

L’analisi del caso Englaro permette, non a caso, di giungere a conclusioni che toccano proprio questi punti: i Giudici autorizzarono Beppino Englaro a decidere, ritenendo irrilevante la volontà manifestata da Eluana Englaro; la decisione non aveva affatto a che fare con il rifiuto di terapie ma riguardava direttamente l’uccisione della disabile; la decisione venne affidata a chi esplicitamente sosteneva che la condizione in cui l’interdetta si trovava – lo stato vegetativo persistente – non era degna di essere chiamata vita, tanto da ritenere del tutto inutile qualunque cura o terapia.

Quindi: decisione di vita o di morte lasciata a soggetto diverso dall’interessato, adottata per motivi riguardanti le condizioni fisiche e psichiche della vittima. “Libertà di vivere o di morire” affidata ad altri e ai loro criteri di “dignità della vita”.

Non è che, l’essenza dell’eutanasia è (quasi) sempre questa?

Cercheremo di vederlo.

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