Molti in Europa dicono che il declassamento dell’Italia è stato intempestivo. Invece è arrivato proprio al momento giusto. Ecco perché
di Mauro Faverzani
Nel febbraio del 2006, durante un comizio a Verona, l’allora Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, parlò di magistratura “ad orologeria”. Oggi possiamo forse parlare anche di finanza “ad orologeria”, dopo l’ulteriore declassamento inflitto all’Italia dall’agenzia di rating Moody’s. Ormai sta diventando un vizio: è la terza volta che accade in un anno. La prima fu col Cavaliere ancora in sella, alla guida del suo governo. Adesso, subito dopo l’annuncio del suo ritorno nell’agone politico, riecco la bocciatura. Difficile pensare ad una semplice coincidenza, quanto meno “sospetta”, come scrive il direttore del “Giornale”, Alessandro Sallusti, secondo cui il tutto avrebbe un agro sapore intimidatorio, quasi a dire “avanti così, altrimenti sono guai”. Anche perché, forse per la prima volta in modo tanto esplicito, gli specialisti han dichiarato di non essersi limitati a fare il proprio lavoro, badando solo alle proprie competenze ovvero cifre e tecnicismi. No, han detto d’aver tenuto conto anche dell’eventuale inasprimento del clima politico in vista delle prossime elezioni. Non sappiamo se sia Berlusconi a spaventarli. Forse questo significherebbe sopravvalutarlo. Di certo però questa esplicita invasione nel campo politico rende palese la volontà delle agenzie di rating di voler provare, se non a controllare, quanto meno a condizionare i Palazzi, oltre che le Borse. Il che non va bene, specie da parte di chi dovrebbe semplicemente valutare la solvibilità dei soggetti emittenti obbligazioni, non fare oroscopi fantapolitici. Soprattutto quando, a dar pagelle, siano privati riconducibili a banche e fondi d’investimento.
Non che in passato queste agenzie abbiano brillato in termini di credibilità: fu proprio Moody’s, nel luglio del 2008, a dichiarare affidabile e solida la banca americana Lehman Brothers due mesi prima del suo fallimento. Ora però addirittura l’accusa rivoltale è quella di aver fornito “intenzionalmente ai mercati finanziari informazioni tendenziose, distorte e come tali anche falsate”, provocando un deprezzamento a cascata dei nostri titoli bancari. Ad affermarlo è stato il pubblico ministero della Procura di Trani, Michele Ruggiero, alla chiusura delle indagini sui fatti del maggio 2010, quando Moody’s accostò temerariamente il rischio Grecia al rischio Italia, nonostante non sussistesse alcuna relazione di questo tipo ed anzi l’esposizione delle nostre banche nei confronti di Atene fosse bassa, più bassa di quella di Portogallo, Francia e Germania. Il provocato allarme ci danneggiò non poco e non solo a livello di prestigio. Tanto che oggi il pubblico ministero parla di “danno patrimoniale di rilevantissima gravità”, che Adusbef e Federconsumatori hanno calcolato di circa 120 miliardi. Al punto da dirsi pronte a costituirsi parte civile in un eventuale processo, dopo le accuse di aggiotaggio e manipolazione del mercato pluriaggravati rivolte ad un vicepresidente -nonché senior analyst– e al direttore finanziario di Moody’s. Chiarissimo il commissario europeo, Antonio Tajani, che parla di “poca trasparenza, non si sa per chi lavorino”. Il quotidiano “Il Foglio”, in un editoriale, ha definito invece “abnorme e non sempre trasparente” il ruolo giocato, tale da “oltrepassare le capacità di controllo di qualsiasi governo o Banca centrale”. E ciò che è poco noto è come la stessa Esma -l’authority europea con sede a Parigi, incaricata di vigilare sulla stabilità dei mercati finanziari-, secondo quanto dichiarato dal suo Presidente, Steven Maijoor, in un’intervista al “Financial Times”, ha avviato un’inchiesta circa l’operato delle tre maggiori agenzie di rating, Standard&Poor’s, Moody’s e Fitch, per verificare che le loro analisi avvengano in condizioni di massimo rigore e trasparenza.
Ma c’è un’altra, possibile ragione del nuovo attacco sferrato da Moody’s. Un altro monito, recapitato proprio quando il premier Monti si trovava nella Sun Valley con i guru della new economy, per cercar di piazzare il prodotto Italia: nel caso il Bel Paese s’illudesse di smarcarsi da padrini, padroni, sponsor e protettorati internazionali sui piani economico, fiscale e finanziario, sappia quale sorte lo attende. Infatti, è già stata prospettata l’eventualità di ulteriori tagli. Il declassamento da A3 a Baa2 ci pone a soli due punti dallo status di junkbond, obbligazioni “spazzatura”. Quasi a dirci: attenzione, il baratro è vicino. Ciò, proprio nel momento in cui son stati diffusi i risultati di una simulazione compiuta dagli analisti di Bank of America Merrill Lynch, riportati da Bloomberg. Dati, secondo i quali l’Italia, in caso di “uscita ordinata dall’euro”, avrebbe solo da guadagnarci “in termini di miglioramento della competitività, crescita economica e finanza pubblica”. Come del resto, benefici giungerebbero anche ad Irlanda e Grecia. A perderci sarebbe solo la Germania, che infatti finora si è mantenuta a galla, a spese dei propri “partner” (o valvassori?) europei.
Un tempismo incredibile, non c’è che dire. Ad intra e ad extra. Sbaglia quindi Simon O’Connor, portavoce del Commissario europeo agli Affari Economici e Monetari Olli Rehn, quando parla di tempi inappropriati per il downgrading: l’attacco invece è capitato proprio al momento giusto, preciso come un orologio svizzero. Ma non a caso la Svizzera, di quest’Unione Europea, non fa parte…