di Cristina Siccardi
Un uomo di un metro e 98 risponde al saluto di una compagnia inglese che gli presenta le armi: la mano sulla visiera, il volto asciutto e fiero, la divisa impeccabile… Amedeo di Savoia Duca d’Aosta sembra un vincitore, invece è un prigioniero, che ha perso la sua ultima battaglia. Di lui disse Sua Santità Pio XII: «Era una bella figura di soldato, di principe e di cristiano». In Amedeo di Savoia Duca d’Aosta, Viceré d’Etiopia ed eroe dell’Amba Alagi, del quale quest’anno ricorrono i 70 anni dalla morte, si riunirono la nobiltà di nascita, la nobiltà d’animo e la ricca Fede. Una figura troppo bella, troppo cattolica per essere ricordata dai libri di storia.
Alieno dalle insidie e miserie del potere, fu un combattente coraggioso, aviatore esperto, africanista appassionato e come scrisse Gigi Speroni «aveva ereditato dalla madre, Elena d’Orléans, quell’esprit tipicamente francese che gli impedì di cedere alla retorica imperante e gli permise di vedere sempre le cose con un certo distacco». Diceva: «Essere principi non ha senso, quando non si ha un principato, se non si è capaci di farsi valere come uomo». La sua vita fu avventurosa, austera e semplice; una vita di autodisciplina, con una religiosità molto profonda. Dormiva su una branda militare, spesso in una tenda da campo, si alzava alle sei, pranzava in venti minuti; non amava i ricevimenti mondani, preferiva stare in compagnia degli amici o in mezzo alla natura.
Primogenito di Emanuele Filiberto, secondo Duca d’Aosta, e di Elena di Borbone Orléans, Amedeo, che significa «Colui che ama Dio», nacque nel palazzo della Cisterna a Torino il 21 ottobre 1898. A sedici anni si arruolò volontario nella prima guerra mondiale, come soldato semplice in prima linea. Seguì lo zio Luigi di Savoia Duca degli Abruzzi in Somalia: furono gli artefici della ferrovia per Mogadiscio e della costruzione del villaggio Duca degli Abruzzi.
Il “mal d’Africa” lo catturò completamente. Conseguì la laurea in giurisprudenza a Palermo con la tesi “I concetti informatori dei rapporti giuridici fra gli stati moderni e le popolazioni indigene delle colonie”, nella quale esaminava il problema coloniale sotto l’aspetto morale: era un fermo assertore del colonialismo apportatore della civiltà. Il 5 novembre 1927 sposò a Napoli Anna di Borbone Orléans. Terminata la seconda guerra italo-abissina, il 21 ottobre 1937, fu nominato Governatore generale, Comandante in capo dell’Africa orientale italiana e Viceré d’Etiopia.
Contrarissimo ad un’alleanza bellica con la Germania, nel 1941, di fronte alla travolgente avanzata degli inglesi in Africa orientale italiana, organizzò l’ultima resistenza sulle montagne etiopi. Si asserragliò dal 17 aprile al 17 maggio sull’Amba Alagi con 7.000 uomini: una forza composta da carabinieri, avieri, marinai della base di Assab, 500 soldati della sanità e circa 3.000 indigeni. Lo schieramento italiano venne ben presto stretto d’assedio dalle forze del generale Cunningham, il quale disponeva di 39.000 uomini. I soldati italiani, inferiori sia per numero sia per mezzi, diedero prova di grandissimo valore, ma si dovettero arrendere. Il 23 maggio il generale inglese Platt comunicò al Duca che gli era stata concessa da Vittorio Emanuele III la Medaglia d’oro al valor militare.
Amedeo, prigioniero di guerra numero 11590, venne trasferito in Kenya per mezzo aereo e durante una parte del volo gli vennero ceduti i comandi per consentirgli di pilotare un’ultima volta. Arrivato in Kenya, venne tenuto prigioniero dagli inglesi presso Dònyo Sàbouk (Nairobi), una località infestata dalla malaria, che lo colpì insieme alla tubercolosi. Morì il 3 marzo 1942 nell’ospedale militare di Nairobi, dopo essersi confessato da padre Boratto ed avergli detto: «Come è bello morire in pace con Dio, con gli uomini, con se stesso. Questo è quello che veramente conta».
Al suo funerale anche i generali britannici indossarono il lutto al braccio e per sua espressa volontà fu sepolto al Sacrario militare italiano di Nyeri (Kenya), insieme ai suoi 676 soldati. Aveva scritto il 28 maggio 1941 sul Diario dell’Amba Alagi: «Addí Úgri. Tramonta il sole (…) prego in quest’ora divina in cui il giorno è passato e la notte non è ancora venuta. Mi sento in pace, in stato di euforia spirituale; ringrazio Iddio clemente e misericordioso (…) per le grazie, le gioie e i dolori che Egli mi ha mandato nella sua onnipotenza, e nelle lodi non gli chiedo favori, pago solo di esaltarne la grandezza».