di Davide Greco
DOMENICA 13 MAGGIO TUTTI A ROMA, PER LA MARCIA NAZIONALE PER LA VITA
Sul web è presente una sorta di tema-tabù sull’aborto. Si parla un po’ di tutto, esistono punti di vista differenti, analisi logiche dettagliatissime. Ma c’è un aspetto di cui si parla poco: in cosa clinicamente consista. Con sorpresa, la maggior parte dei testi, anche quelli più specialistici, evitano l’argomento. Perché? È interessante notare, ad esempio, come nel Glossario fornito dall’Istat del 2011 per gli anni 2008-2009, non esista una voce che descriva la procedura clinica adottata.
Invece sono tenute ben distinte le voci “Aborto” e “IVG”. Non è un dettaglio da poco. Sono la stessa cosa, ovviamente, ma nel primo caso (quello semanticamente più forte), l’aborto viene definito «interruzione della gravidanza prima che il feto sia vitale, cioè capace di vita extra uterina indipendente ». Cerchiamo di capire. Se uno si fermasse alla prima parte della frase, penserebbe che il feto «non è vitale», dunque privo di vita, o almeno mancante di esistenza propria. Ma non è così. Il feto è vivo, e tuttavia è incapace di esistere al di fuori del grembo materno.
Estrarlo coincide esattamente con l’ucciderlo. Una società con un’etica ben salda darebbe rilievo a quest’ultimo aspetto, mentre una società dai parametri scombinati insisterebbe su quel “prima che… vitale” per giustificare la propria innocenza. Per specificare, sempre la stessa voce dice: «Si distingue l’aborto spontaneo dall’aborto indotto o interruzione volontaria della gravidanza».
Da un lato si ha «l’aborto spontaneo», naturale, dall’altro si ha un qualcosa di diverso che, con eufemismo ben studiato, viene prima siglato e poi neutralizzato con «interruzione volontaria della gravidanza». La voce IVG, infatti, descrive l’aborto solo in termini legali, tecnici, freddi. Ed è chiaro il motivo: mentre aborto si capisce subito, IVG è poco comprensibile e rende il tutto più stemperato.
È un po’ come la propaganda in Inghilterra, sottolineata da Gianfranco Amato (I nuovi Unni, p. 132-134): lì si preferisce chiamare l’aborto medical care (cura medica) e i movimenti che lo sostengono pro choice (a favore della scelta) che tutelano l’abortion right (il diritto all’aborto). Che poi si tratti di decisione che uccida o meno una creatura viva fa parte delle specifiche, come fosse un dettaglio marginale. Il dato importante sembra essere la cura, la libertà di scelta, l’autodeterminazione della donna, ed è su questo che la propaganda abortista fa leva.
Ma la percentuale della cosiddetta “cura”, gli aborti procurati per la salute fisica e mentale della donna, in Italia come in Inghilterra non sono che uno zero virgola un numero. Numeri bassi, peraltro già compresi nella legislatura precedente al 1978 (vedi art. 54 del Codice Penale sullo “Stato di necessità”). Si faccia attenzione poi alla parola auto-determinazione perché, messa così, sembra che la donna possa scegliere per qualcosa che riguarda solo lei.
Quasi che un bambino fosse una massa di cellule amorfe, un pezzo smontabile, che si può togliere come la carta da parati in casa. Invece si tratta anche di etero-determinazione, una decisione che si prende al posto di un altro. È bene sempre sottolinearlo, perché a forza di eufemismi e di acronimi si rischia di perdere il senso della gravità di ciò che si sta facendo. Il senso vero dovrebbe essere questo: si faccia attenzione a parlare semplicisticamente di aborto, perché il bambino abortito avresti potuto essere tu. Ora tu puoi amare, decidere, sorridere, lavorare o disperarti perché una mamma, la tua, ha deciso che valevi di più di una “causa economica”.
O peggio ancora, che valevi meno della sua libertà. Intendiamoci, non si sta dicendo che la donna non deve scegliere. Si sta dicendo che le parole usate per descrivere questa scelta sono ambigue, sbagliate o controverse. Possono ingannare. Personalmente apprezzo la consapevolezza e sto sulle difensive quando qualcuno o qualcosa cerca di nascondermi la verità o me la racconta con parole poco chiare. Poi, giustamente, ognuno è in democrazia libero di fare quello che coscienza gli detta, ma che almeno lo faccia consapevolmente e non superficialmente. Va da sé, poi, che la consapevolezza e l’informazione creerebbero non pochi dubbi nell’opinione pubblica, ma è proprio questo che i gruppi pro-choice vorrebbero evitare.
La consapevolezza. I percorsi per addormentare le coscienze della gente sono proprio questi: spostare il baricentro del discorso, presentare come positiva una realtà negativa. Nessuna dittatura, per quanto spietata, si è mai presentata come distruttiva verso il popolo, ma ha sempre motivato le proprie scelte come belle, sane, produttive per chi le segue. Per avere un’informazione corretta e autorevole sull’isterosuzione, la pratica abortiva più utilizzata, bisogna prendere invece testi come quelli di Rodríguez-Luño, Scelti in Cristo per essere santi, III, manuale a cura della Facoltà di Teologia “Santa Croce”. A pagina 194 troviamo questa descrizione: «Viene allargato l’orifizio esterno del collo uterino, e viene introdotta una cannula allo scopo di estrarre il nascituro mediante l’aspirazione, prodotta da un apparecchio simile all’aspirapolvere domestico, ma molto più potente. La morte del nascituro viene provocata smembrandogli le braccia e le gambe. I resti fetali diventano una marmellata sanguinolenta».
Non è necessario commentare ulteriormente, ma qualsiasi medico con parole più o meno diverse (magari tecniche) vi confermerà che è vero. Cercate su internet, fra le immagini, basta digitare “isterosuzione” o “metodo Karman”. Ma la domanda è soprattutto questa: è giusto che si possa leggere una descrizione dell’aborto come questa solo (o quasi) in un libro di Teologia Cattolica? Perché non la si può trovare anche nel Glossario dell’Istat, nelle specifiche della legge 194 o in qualche altro testo di portata pubblica? È forse troppo brutale, di cattivo gusto?
Se non si ponesse l’accento sulla brutalità del gesto, non si capirebbe perché a distanza di 34 anni molti sentono ancora come un dovere aprire una discussione sulla legge sull’aborto. Se non fosse brutale, chi contesta la legge 194 apparirebbe come un matto che si scalda per niente. Se tutti stessero zitti, vorrebbe dire che la società ha davvero fatto un passo avanti. Verso brutalità ancora peggiori.