di Don Marcello Stanzione
Edith Stein, filosofa tedesca di origine ebraica, nasce a Breslavia, in Polonia, nel 1891. Settima figlia di Sigfried e Augusta Courant, entrambi ebrei dalla fede profonda, a due anni rimane orfana del padre. Da giovane studia filosofia a Breslavia e a Gottinga dove consegue il dottorato. E’ allieva e poi assistente del celebre fenomenologo Edmund Husserl all’università di Friburgo. E’ autrice di opere di ampio respiro, traduttrice di San Tommaso e docente nell’Istituto di Pedagogia di Munster. I filosofi la conoscono per i suoi studi e per le intuizioni sul problema femminile. Durante la Grande Guerra è crocerossina. Colpita dal “Castello interiore” di Teresa d’Avila, chiede il battesimo nel 1922, quindi si dedica all’insegnamento nel liceo delle domenicane di Spira. La prima volta che chiede di entrare nel Carmelo di Wurburg le è negato, perché “nel mondo avrebbe potuto fare tanto bene”.
Ma è convinta che non sia l’attività umana a salvare, ma soltanto la Passione di Cristo. La sua aspirazione è partecipare ad essa. Diviene carmelitana a Colonia e assume il nome di Teresa Benedetta della Croce. Il regime nazista la sospende dall’insegnamento perché ebrea. Con l’acuirsi delle persecuzioni razziali, i superiori la trasferiscono nel convento di Echt in Olanda. Nel 1939 offre la sua vita al Dio crocifisso.
Per Edith “la croce non è fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l’alto”. Nell’agosto del 1942 la Gestapo la preleva insieme alla sorella Rosa, terziaria carmelitana; ad Auschwitz viene uccisa in una camera a gas. Edith, un’ebrea prima atea poi suora cattolica che va a morire ad Auschwitz, assurge a simbolo e modello esemplare di fratellanza nel dolore, riassumendo in sé tutte le problematiche del nostro tempo.
E’ la prima donna ebraica elevata agli onori degli altari, oltre le donne del Vangelo, da papa Giovanni Paolo l’11 ottobre 1998. Lo stesso Pontefice un anno dopo l’ha proclamata compatrona d’Europa insieme a Caterina da Siena, Brigida di Svezia, Benedetto e Cirillo e Metodio. La pensatrice e martire del nazismo E. Stein riguardo agli spiriti celesti sostiene che non bisogna vedere l’angelo come una barriera tra noi e Dio: “ Vorrei spezzare una lancia in favore degli angeli: non stanno tra noi e Dio come una barriera; il raggio di luce che (secondo Dionigi) giunge a noi dopo aver attraversato tutti i novi cori, abbraccia tutto il mondo spirituale; la stessa Trinità è presente in ogni grado, fino all’ultimo coro angelico. Il fatto che Dio tratti con noi attraverso dei messaggeri non è segno di maestà inavvicinabile, bensì di amore straripante. La loro felicità è collaborare con Dio nel distribuire le grazie; del resto costituirà anche la nostra felicità”. Affascina la Stein il lavoro dell’angelo che non va “intralciato”: solo così avverrà una specifica epifania dell’angelo, come ricorda “la ricorrenza di San Pietro in Vincoli, una ricorrenza a me molto care – dice la filosofa- non come mera commemorazione, ma nel senso della liberazione dai ceppi da parte dell’angelo”. Un angelo liberatore, dunque, oltre che messaggero e distributore di grazie. Per Stein l’angelo ha un tratto personale, nel suo “proprium” analogo alla singolarità umana: tutto ciò che noi chiamiamo persona, che siano uomini o angeli, “e rationalis naturae individua substantia” nel senso che contiene nel suo “Quid” qualcosa di “incomunicabile”, che non divide con nessun altro”. Anche se in modo diverso dagli uomini – spiriti incorporati e legati alla materia- i puri spiriti angelici sono caratterizzati da vita perfetta.
Essa, totalmente libera dalla materia, può procedere da sé in un movimento del tutto diverso da quello d’umana auto-attuazione, un movimento essenzialmente ek-statico e di auto-trascendenza: “In un caso, però, è un movimento per cui l’ente (l’uomo) – in quanto diviene – giunge a se stesso; nell’altro caso (l’angelo) è un moto, in cui l’ente – in quanto perfetto – esce da sé, si attua senza per questo lasciarsi o perdersi”. In virtù della dimensione spirituale situata nella corporeità o da essa libera, uomo e angelo si differenziano nel loro “essere persona”, nel loro abbracciare e portare a pienezza la propria essenza personale. L’uomo infatti – diversamente dall’angelo – deve dominare con lo spirito il “fondo oscuro” della propria vita corporeo – materiale e solo così può elevarsi in grandezza dinanzi a Dio quale trasfiguratore in senso spirituale di tutto ciò che è materiale e che rischia di imprigionarlo. L’angelo invece – diversamente dall’uomo – può formare personalmente tutto il suo “sé”, può illuminarlo e dominarlo agevolmente. Ne viene per l’angelo e per l’uomo una diversa libertà. L’angelo sarà, in tal senso, assolutamente libero, avrà “una pronta scelta nel libero arbitrio”, conoscerà la verità senza discorso e ricerca, senza dubbio o difficoltà nel discernere e giudicare. Una libertà straordinaria e luminosa che può generare anche l’opzione demoniaca e nichilistica negli angeli caduti: “Gli angeli (in tal caso) devono necessariamente cadere dal regno della luce in un altro regno e devono produrlo da se stessi perché non lo trovano. Esso porta in sé i segni della sua origine: proprio per l’opposizione a quello a cui si è sottratti, è qualificato come tenebra, vuoto, assenza, nulla”. Ben diverso il destino umano affaticato nella sua libertà. Uomo e angelo sono: “Accomunati dal fatto che entrambi diventano consapevoli della vita del loro Io e possono agire liberamente sul suo andamento. Sono diversi in quanto il comportamento libero dell’anima(umana) non abbraccia tutto il suo essere, ma è un interferire in un accadere in atto, e in quanto il suo comportamento lascia tracce in essa, cosicché essa riceve dapprima uno sviluppo e una forte impronta dall’esterno. Il puro spirito (dell’angelo) riceve la sua essenza come forma definita, e la sviluppa nella sua vita, senza cambiarvi nulla. (Prescindendo dall’inversione dell’essenza nella decisione unica degli angeli caduti). L’anima (umana,invece,) deve dapprima arrivare al possesso della sua essenza e la sua vita è la via per giungere a questo”.
Nel paragrafo del VII capitolo di “Essere finito e Essere eterno”, interamente dedicato agli angeli, la Stein riprende la “Gerarchia celeste” di Alberto Magno e, in particolare, quell’espressione scritturistica assunta da Alberto e applicata agli angeli: “Ad locum, unde exeunt, flumina revertuntur, ut iterum fluant” (Qo 1,7). Gli angeli, quindi colti come fiumi che tornano al luogo da cui sono venuti per poi riscorrere. Luogo divino che alimenta in permanenza la loro funzione di collaboratori di Dio e suoi messaggeri: essi soltanto possono trasmettere “la potenza gerarchica: sono, infatti, messaggeri di Dio, inviati a portare la luce divina nella creazione”. Gli angeli sono i primi illuminati da Dio e fungono da suoi intermediari nelle rivelazioni trasmesse all’uomo: “I puri spiriti sono come raggi attraverso i quali la luce eterna si comunica alla creazione”.
La peculiarità della comunicazione angelica è, per la Stein, il suo carattere linguistico metaforico: “Gli angeli hanno comunicato le cose divine servendosi di sottrarre metafore”. Lo scopo del linguaggio metaforico o simbolico degli angeli è quello di: “sottrarre allo sguardo profano della moltitudine il sacro e rivelarlo a coloro che aspirano alla santità, a coloro che, abbandonata la mentalità puerile, hanno acquistata la necessaria acutezza mentale e la visione delle semplici verità”. Fondamentale, infine, per la Stein, è contemplare la vita comune degli angeli modulata in modo trinitario: “A causa della purezza del loro donarsi, la vita comune degli angeli è anche l’immagine più pura della vita divina in tre persone; infatti ogni spirito celeste è unito dall’amore a uno spirito superiore, e in virtù di quest’unione dà frutti, risvegliando la vita divina negli spiriti inferiori. La loro vita di gloria rappresenta una partecipazione alla vita di Dio uno e trino, come non è possibile a nessun altro uomo durante la vita terrena”.
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