di Piero Vassallo
Il significato nascosto nell’avventura ecumenica vissuta dal compianto Silvano Panunzio si trova, forse, nello scritto Robert Hugh Benson, che recita: “è evidente il fatto che, mentre questa o quella particolare religione hanno una o più identità con la dottrina cristiana, il Cristianesimo le possiede tutte; il Cristianesimo, in breve, ha tutte le principali dottrine di tutte le religioni” (cfr. “L‘alba di tutto“, Fede & Cultura, Verona 2010, pag. 33).
Nel lontano 1974, Panunzio ed io ignoravamo la magnifica sentenza di Benson, che avrebbe abbattuto le ragioni del nostro contendere sull’ecumenismo di Panunzio (a mio parere sincretismo) durante il convegno fiorentino organizzato dal filologo (in gergo, linguaiolo) Adolfo Oxilia.
L’imperfetta opinione ci divideva, ci univa la soggiacente fede nella totale dottrina di Nostro Signore. Diventammo amici, malgrado le diverse opinioni e la comune appartenenza al genere dei caratteri spigolosi e irriducibili.
L’amicizia Silvano la manifestò nel dicembre del 1976, partecipando – a proprie spese – al convegno (che stava a cuore a me e a Pino Tosca) sulla filosofia di Giambattista Vico. Assemblea organizzata in Bari dall’associazione dei giusnaturalisti cattolici in esecuzione del programma elaborato da Francisco Elias de Tejada.
La finalità del convegno era valorizzare e rilanciare l’eredità delle avanguardie anti-hegeliane e anti-totalitarie (Niccolò Giani, Guido Pallotta, Nino Tripodi) e proporre alla destra missina la filosofia vichiana quale alternativa alle suggestioni hegeliane e ultra-hegeliane.
Di qui un animato dibattito sui criteri mediante i quali identificare e isolare le frazioni ancora attuali della complessa e variegata eredità del Novecento italiano.
Alla discussione parteciparono i protagonisti del convegno (De Tejada, Silvio Vitale, Giovanni Torti, Paolo Caucci, Tommaso Romano, Pino Tosca, Michele Mascolo), alcuni qualificati esponenti della destra cattolica (ad esempio Giulio Cesco Baghino e Pinuccio Tatarella) oltre che degli “ultimi” Silvano Panunzio e Alfredo Oxilia.
Gli amici di De Tejada suggerirono di interpretare l’esperienza fascista alla luce del cesarismo di Giambattista Vico, e in ultima analisi di adottare l’idea di popolo che aveva guidato Mussolini sulla via della pacificazione dello stato italiano con la Chiesa cattolica e delle grandi riforme sociali. Una via indirizzata all’abbattimento dei pregiudizi giacobini, oligarchici e massonici, che avevano ispirato i “profeti” di paglia del c. d. risorgimento liberale.
Silvano Panunzio ha sostenuto la necessità di criticare il machiavellismo, giudicato fomite degli errori che gettarono un’ombra sulla storia fascista, inducendo Mussolini a firmare una legge iniqua, il cui unico senso era compiacere l’alleato germanico.
E al proposito Panunzio rammentò un episodio poco conosciuto della storia italiana, cioè l’opposizione alle leggi razziali, condotta da alcuni eminenti giuristi ispirati da suo padre, Sergio Panunzio (Molfetta 1886- Roma 1994).
Alla vigilia della promulgazioni delle leggi razziali, infatti, Sergio Panunzio si recò nella residenza privata del duce, a villa Torlonia, per chiedere una revisione radicale della irrazionale teoria razzista.
La finalità della riforma proposta da Panunzio era il riconoscimento dei meriti degli ebrei (e al proposito fu citato il grande filosofo giusnaturalista Giorgio Del Vecchio) che avevano onorato e accresciuto la cultura dell’Italia fascista.
Panunzio, ovviamente, non negava il diritto dello stato italiano alla difesa dalle minoranze ebraiche coinvolte nel complotto antifascista organizzato dalle massonerie di Francia e Inghilterra. Tale diritto era riconosciuto anche da eminenti studiosi cattolici, ad esempio da alcuni docenti dell’Università cattolica di Milano.
Sergio Panunzio sosteneva, invece, e con il coraggio dell’autentico anticonformista, il dovere di rigettare il cieco determinismo, di stampo neopagano, su cui era fondato il razzismo germanico. Sopra tutto affermava l’obbligo morale di riconoscere i meriti degli ebrei nobilmente impegnati nella promozione della grandezza italiana. Ad esempio la medaglia d’oro capitano Luzi, caduto in terra di Spagna proprio nel 1938.
A Mussolini, che ascoltava in silenzio, Panunzio dichiarò che era intollerabile instaurare una legge che umiliava ingiustamente un camerata quale Giorgio Del Vecchio, l’uomo senza paura, che durante un attentato aveva fatto scudo al duce con il proprio corpo.
Panunzio fu congedato senza una risposta, perché una risposta sensata era impossibile alla vigilia della promulgazione di una legge ingiusta.
La lezione di Silvano Panunzio era specialmente attuale nel momento in cui sulla cultura del Msi dalla Francia calava l’ombra di un neopaganesimo dichiaratamente ostile alla tradizione cristiana.
Soggiacente al neopaganesimo correva un antisemitismo avventizio e contrario alla cultura del Msi, che dichiarava il superamento del razzismo e praticava la stima e l‘accoglienza di personalità che, nel cognome, o nella storia familiare rivelavano una non lontana origine ebraica: il segretario Augusto De Marsanich, Giorgio Del Vecchio, collaboratore dell‘ISSPE, e insieme con loro numerosi studiosi di alto profilo, quali il saggista Giovanni Cantoni, il giornalista Enrico Nistri, lo psicologo Giampaolo Vita–Finzi, lo storico Claudio Finzi, l‘esteta Carlo Fabrizio Carlì di Lubecca, il sindaco di Roma Gianni Alemanno, lo scrittore Alberto Rosselli, il politico fiorentino Marco Cellai, il politologo Silvio Vitale ecc.
L’intervento di Silvano Panunzio, in ultima analisi, contribuì a segnare più profondamente il confine che separa la destra tradizionale dalla neodestra anticattolica, insorgente proprio in quegli anni per l’iniziativa degli amici di Plebe e di De Benoist.
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