di Piero Nicola
Tra tante desolazioni e incertezze dei nostri giorni, abbiamo un bel motivo di consolazione: la Patria è indistruttibile.
Coi tempi che corrono, il vocabolo Patria generalmente appare scaduto: una parola che designa cosa vacua, mencia, tramontata, una larva. Niente affatto! Le Nazioni esistono e sussistono, per quanto i potenti che intendono distruggerle si diano da fare, e per quanto i popoli stessi intendano rinnegare o dissolvere la propria identità collettiva.
La Patria è appunto una identità, costituita da qualità peculiari, distinte, oltre che di natura fisica e d’indole, per consuetudini, lingua, tradizioni, retaggio religioso, culturale, storico, morale. Il tutto conferisce a un popolo una fisionomia unica, un volto e una figura simile a quella della persona, una personalità. E il popolo, anche volendo, non può annullarla e cambiarla oltremodo.
Se ne chiede la prova? In questa sorta di consorzio di stati europei, quale di essi è disposto a rinunciare ai suoi interessi, anche soltanto economici e materiali? Nemmeno uno evita di tirare l’acqua al suo mulino. Essi si sono legati per convenienze, e per il raggiro di qualcuno che intende sfruttare la situazione, da lui stesso procurata. Ma, nonostante che i capi di stato e di governo, obbedienti (coscientemente o inconsapevolmente) a quel qualcuno, portino avanti l’ideologia fatta di mondialismo, internazionalismo, di convivenza e società multietnica, di buonismo irresponsabile, di umanitarismo pervertito, interessato, corruttore, autolesionista, quali che siano le loro convinzioni e il loro animo, essi sono astretti dal profitto delle loro genti rispettive. Per quanto la classe dirigente possa essere finta e fellona, i cittadini non ammetterebbero d’essere spersonalizzati e spogliati, essendo ridotti a individui d’una sola, intera umanità, aventi in comune il medesimo tipo di civiltà, meglio, di inciviltà. Se persino le differenze regionali e di campanile riescono a incrinare l’unione, la coesione di un popolo, è impensabile che italiani, francesi, tedeschi, inglesi, ecc. possano far prevalere interessi d’ogni sorta resi uguali per tutti, a grave scapito dei loro beni singolari, al di sopra delle esigenze poste dagli usi, dai beni propri creati nei secoli, dai luoghi che loro appartengono. L’attaccamento alla cucina natia, l’esclusiva capacità di mantenerla nel paese in cui si vive, con gli ingredienti del paese, non è che un esempio alquanto prosaico dell’attaccamento alla particolarità antitetica alla globale uniformità e unificazione. Attaccamenti superiori, sebbene ora meno evidenti, formano insieme una forza irresistibile, contrapposta alla standardizzazione inevitabile, richiesta dal mondialismo; contrapposta bensì a qualsiasi tentativo di imporre una egemonia, un potere politico situato oltre i patri confini.
E’ pur vero che l’influenza straniera, per esempio nel dopoguerra, recò trasformazioni di gusti, di idee, di costumi. Tuttavia restammo italiani, con pregi e difetti nostri speciali. E se perdemmo assai la nostra indipendenza e subimmo certi pervertimenti venuti da fuori, fu per la naturale debolezza e per la mancata presenza di uomini che ci mostrassero il valore e la ragione. Però, in buona sostanza, siamo rimasti italiani, e non tollereremmo le pressioni e le imposizioni, che riceviamo perché rivestite di menzogna e spacciate per giovevoli ed eque.
Causa una sorta di stordita prodigalità, molti – pur essendo sostanzialmente avari – sembrano disposti a spartire col primo venuto immigrato il patrimonio di opere pubbliche e molto altro ancora del nostro patrimonio comune, per un supposto profitto economico e per fallaci suggestioni ideali e sentimentali. Ma non è questione di rinuncia effettiva: di confondersi gli italiani con i francesi; né si confonderebbero i francesi con i tedeschi, i tedeschi con gl’inglesi, gli spagnoli con gli svedesi, e tutti loro, aggregati in un unico genere europeo.
Con ogni evidenza, il fatto considerato si estende oltre i confini dell’Europa. Quale stretto consorzio degli americani con i cinesi, del cinesi con i giapponesi, e così via?
Tanti ingenui e sprovveduti credono che, come si formarono gli Stati Uniti mediante un miscuglio di razze ed etnie, annullatesi nel tipo americano, allo stesso modo si possa comporre uno paese planetario. Il Nord America precolombiano era praticamente deserto, privo d’una civiltà. Quella degli aborigeni pellerossa – pure non del tutto disprezzabile – non contò nulla, venne spazzata via. D’altronde, l’esiliarsi laggiù degli emigrati europei non fu certo encomiabile e felice, procurò loro un mero miglioramento materiale. Al progresso degli USA nell’ambito delle scienze e della tecnica, della ricchezza e della potenza, non corrispose una elevazione civile. Dopo una corruzione endemica notevolissima, la crisi dei costumi, in quella nazione, ha raggiunto un punto quanto mai basso, e la scaturigine del fenomeno si rinviene nella stessa mentalità consolidata, libertaria e superba, presuntuosa, nella costituzione politica originaria: prevalentemente materialista e scientista. Da quando l’America divenne egemone nella sfera delle idee e dei comportamenti, il suo contagio ha accresciuto dovunque l’immoralità, e dovunque c’è stata una decadenza parallela. La caduta economica è stata un seguito inevitabile del decadimento morale; di là propagati entrambi, hanno coinvolto il mondo intero.
L’esito a venire di tali andamenti si presenta oscuro e assai imprevedibile. Di certo, il mondialismo uniformatore (nel peggio) farà fiasco, quand’anche le nazioni non tornino alla degna consapevolezza di ciò che sono, quand’anche, le migliori di esse, restino ancora a lungo nell’abiezione in cui languono.
Così possiamo rallegrarci che l’intelligenza, l’abilità, l’astuzia diabolica di cui hanno dato prova i nostri nemici, incappi nell’insipienza del loro progetto ultimo, insipienza che, a un dato segno, afflisse i più grandi reggitori delle sorti umane.
E chissà che qualche fausto accidente non provochi una ripresa della coscienza nazionale, e ci riporti sulla retta via delle tradizioni, della logica e della fede.