di P. Giovanni Cavalcoli, OP
sesto capitolo: La perdizione dopo la morte
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Proseguiamo il nostro corso di escatologia. Trattiamo in questa lezione della condizione delle anime dopo la morte, ossia di coloro che muoiono in stato di peccato mortale e che per questo cadono o precipitano per sempre in un luogo tenebroso e misterioso, al di fuori di questo mondo, rappresentato come “al di sotto”, detto tradizionalmente “inferno”, appunto dal latino infernum, che significa “sotterraneo”, ovvero l’abisso, la voragine oscura, da intendersi però non in senso fisico, quasi si trattasse di strati geologici o di caverne al di sotto della superficie terrestre, ma in senso metaforico, così come per esempio diciamo di una persona che è “caduta in basso” per dire che è venuta meno alla sua dignità o è decaduta da una buona condizione.
Un’oscura percezione della possibilità che l’anima dopo la morte scenda in una regione misteriosa oscura e triste, caratterizzata da un’esistenza grama ed umbratile, si trova presso le varie religioni già dall’antichità. Pensiamo per esempio alla religione dei Greci, con il loro mito dell’Ades, del Tartaro o dell’Erebo. Pensiamo alla religione romana, che è influenzata da questi miti greci, e che contempla l’esistenza degli inferi o dell’infernum.
Tuttavia nel mondo pagano questa situazione triste e tenebrosa dell’al di là non è vista tanto come castigo di peccati commessi nell’al di qua, quanto piuttosto come sorte comune a tutti, anche ai buoni, tranne qualche eccezione rarissima riservata agli eroi – pensiamo al Parnaso o all’Olimpo – personaggi che dopo la morte assurgevano ad un condizione divina. Pensiamo per esempio agli imperatori romani.
Il mondo pagano occidentale sente oscuramente che l’esistenza umana non è del tutto distrutta con la morte; qualcosa continua a vivere – non omnis moriar, dice il poeta Orazio -; ma siccome il pagano è molto attaccato alla vita presente, nella quale sola si può essere felici, ecco che il fatto di lasciarla per un mondo ultraterreno incorporeo, privo di godimenti fisici, del quale peraltro non si sa nulla, è motivo di tristezza e per questo tale luogo è considerato come un mondo triste. I suoi abitanti rimpiangono la vita presente, ma non possono tornarvi.
E’ solo nella filosofia indiana – brahmanesimo e buddismo – che l’anima di chiunque, soprattutto del saggio, e non solo di pochi privilegiati, essendo già di per sé divina, esistente ab aeterno, dopo una serie di purificazioni e di pratiche ascetiche e rituali (il shamshara, ossia una serie di reincarnazioni), può raggiungere la beatitudine (nirvana) lasciando per sempre la vile corporeità e sciogliendosi nell’Assoluto, Brahman ovvero il Nulla, come la goccia si scioglie nell’oceano. Ma anche qui esiste, per chi non adempie al karma, ossia alla giustizia, un’eterna dannazione, per sempre legato alla corporeità che è il principio del male.
Qualcosa del genere si dà anche nell’antica visione zoroastriana e manichea, sebbene con meno accentuato panteismo. In Platone c’è qualche traccia di ciò, ma con la chiara percezione della trascendenza divina e quindi della distinzione fra l’anima (nus) e il Bene divino (Agathòn). Ma anche in Platone c’è il premio e il castigo dopo la morte. Dottrina simile in Aristotele, benchè questi abbia più di Platone la percezione della bontà del corpo e comprenda meglio che il male viene dalla volontà.
Viceversa la Sacra Scrittura concepisce l’al di là, felice o infelice che sia, in stretta relazione col concetto della giustizia e del peccato, intesi come atti rispettivamente conformi o non conformi alla legge divina, di un Dio unico e trascendente, il quale promette ai buoni una risurrezione beata ed ai malvagi minaccia un’eterna dannazione. Ecco rispettivamente il paradiso e l’inferno.
Occorre peraltro distinguere gli inferi dell’Antico Testamento (ebr. shèol) dall’inferno (gr. ades) del Nuovo. Nell’uno e nell’altro caso si dà un castigo dopo la morte, ma, mentre gli inferi veterotestamentari accolgono tutti i defunti, sia i giusti che gli ingiusti, l’inferno neotestamentario, inaugurato dall’avvento di Cristo, è il luogo riservato a coloro che disobbediscono a Cristo, mentre gli inferi cessano di esistere, in quanto Cristo, dopo la resurrezione, discese agli inferi, liberando le anime dei giusti, ossia coloro che attendevano il Messia, e conducendole con sé in paradiso, mentre coloro che non avevano voluto sperare nel Messia precipitarono nell’inferno.
Inoltre, caratteristica dell’inferno biblico è il fatto che in esso non cadono solo quelle creature umane alle quali ho accennato sopra, ma sono precipitati anche gli angeli ribelli alle origini della creazione, come insegna S.Pietro: “Dio non risparmiò gli angeli che aveano peccato, ma li precipitò negli abissi tenebrosi dell’inferno (tàrtaros), serbandoli per il giudizio”( II Pt 2,4).
Secondo la fede cattolica, il castigo infernale non è propriamente conseguenza di un atto positivo da parte di Dio, alla maniera di un giudice umano che condanna il reo, anche se la Scrittura si esprime metaforicamente in questo modo, ma, come la Bibbia dice chiaramente in altri luoghi, la perdizione infernale è logica e stretta conseguenza della stessa ribellione dell’uomo a Dio, che invece vuol tutti salvi ed a tutti dà la possibilità di salvarsi. Per questo l’inferno è esclusivamente giusta conseguenza della colpa di chi si danna. In modo simile si potrebbe dire che la morte – inferno – è la conseguenza dell’assunzione di un veleno – il peccato.
Dio offre a tutti la possibilità di salvarsi, ma, nel contempo, avendo dotato l’uomo di libero arbitrio, lo lascia libero di fare la sua scelta o per Dio o contro Dio, o l’obbedienza o la disobbedienza, con le relative conseguenze: o il premio o il castigo. Certo al peccatore ripugna il castigo infernale e tuttavia è talmente attaccato alla propria volontà che preferisce andare all’inferno lontano da Dio, piuttosto che stare con Dio in paradiso.
La pena infernale, come si sa dalla fede, è eterna. E questo è logico, in quanto l’uomo è fatto per l’eterno e per l’assoluto. Non può sfuggire a questo destino e del resto nemmeno lo vuole. L’unica alternativa che gli si offre, e qui sta la sua scelta è un’eternità beata in comunione con Dio – il paradiso – o un’eternità infelice – e questo è l’inferno.
Tutti gli uomini, esplicitamente o implicitamente, chiaramente od oscuramente, come risulta dalla Scrittura, sanno che in punto di morte devono rispondere a Dio delle proprie azioni per ricevere o il premio o il castigo. Quindi anche coloro che si professano atei o comunque non cristiani non sono per questo scusati dal non tener conto nella propria vita di questa alternativa. Nessuno può sfuggire al tribunale di Cristo, dall’origine dell’umanità sino alla fine del mondo, quale che sia il popolo, la cultura o la religione o non–religione ai quali appartenga.
La scelta del nostro destino dopo la morte, come sappiamo dalla fede, è irrevocabile, si tratti dell’inferno come del paradiso. Alcuni si chiedono per quale motivo. Potremmo dare la seguente spiegazione. Nella vita presente noi possiamo avere con Dio un rapporto buono e uno cattivo, ed anche alternare questi atteggiamenti in quanto il nostro intelletto non vede Dio immediatamente, ma solo mediante le creature. Così il credente sa per fede che Dio è la sua assoluta felicità, ma non lo sperimenta.
Invece in punto di morte Dio, in Cristo, si manifesta immediatamente e chiaramente a tutti, come il vero Assoluto, al di là del quale non ci sono altre alternative valide. Infatti a questo punto l’anima fa la sua scelta assoluta, per cui non cerca altro da ciò che sceglie in quel momento, si tratti del paradiso o dell’inferno.
Questo significa che la condizione del nostro libero arbitrio in punto di morte cambia completamente, perché se nella vita terrena, mancando la visione beatifica, anche i buoni hanno sempre la possibilità di peccare, ossia di mutare la scelta della loro volontà, in questo punto di morte il bisogno che c’è in tutti noi di assoluto non potrà non trovare uno sbocco definitivo in tutti, inquantochè tutti, davanti all’Assoluto divino, non potranno che rispondere in modo definitivo alla proposta definitiva ed ultima che viene da Cristo. Per cui in questo momento la nostra volontà ha solo due alternative, entrambe assolute: o assolutizzare se stessa o scegliere per sempre Colui che è il vero Assoluto. Nel primo caso si va all’inferno, nel secondo in paradiso.
Un altro punto da considerare. Oggi è diffusa anche tra i cattolici la credenza che tutti ci salviamo. Ma non è assolutamente vero. Ho sviluppato questo argomento nel mio opuscolo L’inferno esiste. La verità negata(1). E’ vero che nel corso della storia la Chiesa conosce sempre meglio la potenza e l’orizzonte della divina Misericordia, per cui ogni tanto capita di scoprire Dio meno severo di quanto si pensasse.
In modo speciale il Concilio Vaticano II ci ha fatto comprendere come non mai la grandezza di questa misericordia. Ma lo stesso Concilio ci ricorda, con tutta la Tradizione, che Dio è anche giusto e che l’inferno esiste. Per questo la tesi buonistica secondo la quale tutti si salvano è in realtà una tesi modernistica che non ha alcun fondamento nell’insegnamento del Concilio e più volte è stata negata in passato dalla Chiesa.
Resta dunque vero che non tutti si salvano. Questa verità di fede dobbiamo intenderla come salutare ammonimento, onde avere orrore per il peccato e concepire un sano timor di Dio che ci mantiene sulla vita della salvezza. Sono pertanto in pericolo di dannarsi proprio coloro che presuntuosamente, come già li avvertiva il Concilio di Trento, facendo leva in modo sbagliato sulla divina Misericordia, credono di salvarsi senza merito continuando liberamente a peccare o a comportarsi secondo i propri capricci.
Come dimostro nel mio libro, l’esistenza di dannati risulta chiaramente dagli insegnamenti stessi di Nostro Signore, il quale, a proposito dell’eterna dannazione, si pronuncia nelle varie circostanze con tre generi diversi di proposizioni: a volte afferma categoricamente il fatto della dannazione come qualcosa che si realizzerà nel futuro (“uno sarà preso, l’altro sarà lasciato”); a volte si limita a dare un serio avvertimento o un forte richiamo (“morirete nei vostri peccati!”); a volte si esprime in modo condizionale (“se vuoi la vita, osserva i comandamenti”).
Ricordiamo inoltre che dottrina tradizionale è l’esistenza del fuoco dell’inferno. Ho già parlato di questo fuoco ultraterreno a proposito del purgatorio e pertanto rimando il Lettore alla lezione dedicata al purgatorio.
Quanto all’idea dell’inferno come “luogo”, anch’essa è dottrina prossima alla fede. E’ chiarissimo l’accenno che Gesù stesso ne fa nel Vangelo. Evidentemente non si può pensare ad un luogo nello spazio di questo mondo. Tuttavia il Vangelo fa capire che si tratta veramente di un luogo, – potremmo chiamarlo “luogo trascendentale” – per quanto misterioso e quasi indefinibile, come del resto è un “luogo” il paradiso e il purgatorio.
Occorre infatti considerare anche il fatto che, almeno per quanto riguarda il paradiso e l’inferno, si dovrà ben parlare di un luogo e non semplicemente di uno stato dell’anima, considerando il dogma della risurrezione, che comporta la corporeità con l’esistenza di un mondo materiale, cose che evidentemente si trovano in un luogo ed occupano uno spazio, anche se dobbiamo riconoscere che l’immaginare nell’al di là cose del genere ci resta molto difficile. Del resto non sta a noi creare queste cose, ma all’onnipotente saggezza divina, che sa quello che fa ed è quella sfera dell’essere, per dirla col divino Poeta, “dove si puote ciò che si vuole. E più non dimandare”.
Bologna, 11 ottobre 2011
NOTE
1) Edizioni Fede&Cultura, Verona 2010.