di P. Giovanni Cavalcoli, OP
Tutti siamo al corrente delle gravissime questioni morali che oggi si pongono sul terreno sia della politica che della Chiesa, della società, dell’economia, delle famiglie, dei gruppi, delle singole persone.
Che cosa c’è al centro di tutto questo marasma? Qual è, per conseguenza, il punto di partenza o di appoggio per una soluzione? Sono convinto che tutto gira attorno al problema della persona. Tutti i valori suddetti, oggi in crisi, non sono infatti che un’espansione o una dilatazione della persona. Non condivido il punto di vista socialista o comunista secondo il quale la liberazione della persona dipende da una trasformazione sociale. No, la società è costruita dalle singole persone, per cui ognuno di noi è chiamato responsabilmente a dare il proprio contributo alla riforma della società ed alla correzione dei costumi.
Indubbiamente un ambiente sociale inadatto o dannoso può mettere in difficoltà la persona sotto molti punti di vista, può indurla al peccato e all’ingiustizia, può gettarla nella miseria e nella sofferenza. Ma in fin dei conti è più decisivo l’influsso che la persona esercita sulla società che non viceversa, perché la società è costruita dalle persone e non è un ente sostanziale del quale i singoli siano delle propaggini o degli effetti accidentali. Io sono plasmato dalla società nella quale nasco solo in vista di costruire attorno a me un ambiente degno della persona.
E se una società corrotta corrompe l’individuo, ricordiamoci il detto aureo del Cristo, secondo il quale il male che rovina l’uomo – il peccato – esce dal cuore dell’uomo e non viene dal di fuori, perché se io non acconsento, per quanto io possa essere tentato, nulla e nessuno può costringermi a peccare se io non voglio.
Dunque il sostanziale nella vita umana non è la società, non sono i rapporti sociali che escono dalla persona o che raggiungono la persona, ma è la persona stessa; la società è effetto e conseguenza della persona. Filosoficamente si dice che la socialità della persona è un “accidente proprio ed essenziale”. L’uomo, come già diceva Aristotele, è un “animale politico”, benchè non si risolva nella politica, ma la trascende per orientarsi a Dio. Ma si sa che ogni forma di collettivismo o totalitarismo sociale è quanto meno implicitamente ateo.
Abbiamo bisogno di un sano personalismo. Da molte parti, anche nel mondo cattolico, si pretende di averne la ricetta. Ma qual è vero personalismo, capace di rispettare la dignità della persona, pur nei suoi limiti e di affrontare vittoriosamente i mali della società e della Chiesa?
Bisogna partire molto da lontano, niente di meno che dall’antica ma sempre valida distinzione aristotelica, fatta propria da S.Tommaso d’Aquino, dell’ente in sostanza ed accidenti. Questa dualità suprema, metafisica, ci consente di porre le radici per la soluzione del problema, anche se naturalmente per raggiungere il concreto occorreranno le necessarie mediazioni e deduzioni.
Infatti il difetto di un certo personalismo sbandierato come la soluzione del problema è quello che chiamerei “personalismo relazionista”, il quale confonde precisamente, nella persona umana, la categoria della sostanza con quella dell’accidente. Ora, la relazione appartiene alla categoria dell’accidente.
Peraltro bisogna ricordare che, se dal punto di vista dell’essenza, la natura umana è composta di anima e corpo, dal punto di vista della sussistenza, la persona umana è effettivamente un composto di sostanza ed accidenti.
Ma il guaio è che da alcuni secoli, per esempio dai tempi di Locke, Leibniz ed Hume attorno al concetto di sostanza ed accidenti pullulano gli equivoci, sicchè questi due venerandi termini del linguaggio filosofico, i cui corrispondenti concetti sono stati indegnamente deturpati, sono stati quasi estromessi dal linguaggio della moderna antropologia o filosofia della persona.
La sostanza è vista al massimo come sostanza chimica, mentre ci si è dimenticati che esiste anche una sostanza spirituale e che Dio stesso, come insegna il Concilio Vaticano I, è purissima ed infinita sostanza spirituale. Oppure è vista come ignoto supporto di una collezione di dati empirici o temporali (stream of consciousness), che raccogliamo per comodità del linguaggio in un unico soggetto logico ovvero fittizio. Oppure è vista come qualcosa di massiccio, inerte, statico ed “isolato”, morto ed impenetrabile sostegno di qualità o di fenomeni che in fin dei conti se ne stanno per conto proprio senz’alcun bisogno di quell’indecifrabile supporto.
Ma le suddette concezioni della sostanza non hanno nulla a che fare con la realtà della persona, la quale, a partire da Cartesio, come è noto, si risolve nell’autocoscienza o in una ragione sussistente (res cogitans) oppure, con Fichte, nella “libertà”. Oggi altri la risolvono in un fascio di istinti, magari di carattere sessuale (Freud) o nel suo emergere sugli altri (Nietzsche) o nella sua funzionalità od orientamento sociale (Marx). E’ qui che si inserisce la concezione relazionista della persona, presente anche in ambienti cattolici, ossia la risoluzione dell’essere personale nel relazionarsi con gli altri o con Dio.
Da qui tutta una retorica della “comunione”, dell’“amore”, dell’“essere–per–gli–altri”, che certamente trova la sua valorizzazione sul piano dell’agire morale della persona, ma non certo per quanto riguarda l’essere o l’essenza stessa della persona. Riducendo il tal modo l’agire della persona (ragione, pensiero, coscienza, intelletto, volontà, affetti, relazioni) al suo essere, non ci si accorge forse di assimilare indebitamente la persona umana alla persona divina, nella quale soltanto l’essere coincide con l’agire.
Invece la sostanza umana non agisce per se stessa, come tale, ma solo attraverso una facoltà di agire, quindi attraverso un accidente; la sostanza umana è soggetto dell’azione, ma non è azione; è solo Dio che, essendo atto puro, è anche pura azione sostanziale e sussistente, sostanza priva di accidenti. La pretesa di una sostanza finita di agire per se stessa è in fin dei conti la pretesa di essere come Dio.
Nell’uomo invece l’azione, fondata su di una facoltà di agire, si aggiunge alla sostanza – in questo senso è accidente – e può anche mancare. E non per questo la persona non resta persona, anche se naturalmente è chiaro che la persona si perfeziona moralmente solo nel rapporto positivo con gli altri e con Dio.
Nell’uomo l’agire comporta un passaggio dalla potenza all’atto, l’azione è l’attuazione di una facoltà, cosa che non esiste assolutamente in Dio, il Quale, essendo Atto puro di essere, è del tutto privo di potenzialità. L’empia pretesa di essere come Dio non porta come risultato o non presuppone altro che la confusione tra sostanza ed accidenti e la riduzione del sostanziale all’accidentale ovvero l’ipostatizzazione dell’accidente. Che cosa sono infatti la sostanza e l’accidente, nel senso genuinamente filosofico e quindi personalistico?
La sostanza non è altro che l’ente individuale completo che esiste in se stesso e per se stesso, un’essenza individua completa atta a sussistere. Da qui il concetto boeziano di persona come la sussistenza individuale di una natura razionale (individua substantia rationalis naturae).
L’accidente, invece, non è certamente quel qualcosa di trascurabile, casuale e contingente che ci è presentato da larga parte della filosofia moderna, come per esempio Hegel. In realtà, come spiega molto bene il Servo di Dio Padre Tomas Tyn nella sua poderosa opera La metafisica della Sostanza. Partecipazione ed analogia entis (1), l’accidente è un ente che si aggiunge alla sostanza dal di fuori o dall’interno, è con essa legato, la perfeziona, la manifesta, da essa deriva, in essa inerisce per cui la presuppone. Agere sequitur esse, dicevano gli scolastici.
L’accidente può aderire talmente alla sostanza o all’essenza da emanare direttamente, indissolubilmente e necessariamente dall’essenza, sì da contribuire a costituirla, anzi da costituirne la parte più nobile, pur restandone distinta, come l’accidente proprio o essenziale – tali sono le facoltà della natura umana: l’intendere, il volere, la coscienza, il ragionare, il pensare, insomma tutti gli atti vitali e dello spirito, che sono connessi con la stessa natura dell’uomo – animal rationale -, nonché le qualità fisiche e la quantità naturale.
La natura umana (anima e corpo) è di per sé inclinata a ragionare, è fatta per ragionare; essa possiede la ragione, ma non è la ragione; la ragione in lei è una proprietà che si aggiunge alla natura (come facoltà dell’anima), pur definendola come umana; Dio sì invece – come lo ricordava di recente il Papa – è una Ragione assoluta e sussistente, atto assoluto di ragione, perfettamente identica con la sua essenza o la sua sostanza.
Ma esistono anche accidenti che più o meno si scostano dall’essenza ed appaiono sempre più ad essa esterni o indipendenti. E qui abbiamo gli accidenti passeggeri e contingenti, gli accidenti nel senso più stretto della parola: ciò che può esserci o non esserci senza mutamento della sostanza. Per esempio che io vesta in un modo o in un altro o che mi trovi in un luogo o in un altro.
Esistono accidenti che condizionano o generano la sostanza, che la mutano, che la conservano, che la corrompono. Nell’attività morale, accanto alla sostanza dell’atto, abbiamo le circostanze, che rappresentano gli accidenti.
Viceversa gli accidenti propri sono permanenti, inseparabili e necessari all’essenza. Mancando infatti essi, manca la stessa essenza o sostanza. In questo senso non può esistere una natura umana che non abbia almeno la facoltà di ragionare, anche se l’atto concreto del ragionare è accidentale, transeunte, intermittente e transitorio e suppone particolari condizioni favorevoli interne o esterne al soggetto.
Non esiste dunque essere umano al quale manchino gli accidenti essenziali, ma possono ben mancare alcuni di quelli contingenti. E non per questo non resta un essere umano. Ed ogni accidente, permanente o passeggero, resta pur sempre accidente distinto dalla sostanza.
La capacità di relazionarsi con gli altri si fonda nell’uomo sulla ragione mediante la volontà. E la ragione a sua volta, come si è detto, non è la sostanza dell’uomo, ma è accidente, benchè accidente o proprietà essenziale. E quindi la ragione a sua volta si fonda sulla natura umana o soggetto umano. Per questo nell’uomo non c’è solo la ragione, ma molte altre dimensioni e facoltà. L’uomo non è una ragione, ma ha la ragione, tra altre proprietà indubbiamente meno specificanti ma non per questo non essenziali. Come si è detto, l’uomo non è una ragione sussistente, un puro pensante, uno spirito puro (res cogitans), ma la ragione è nell’uomo o dell’uomo, ma non è l’uomo.
Il che dunque vuol dire che la ragione si aggiunge alla sostanza umana per completarla con un attributo essenziale – la stessa ragione – la quale, però, inerendo al soggetto umano e non esaurendone l’essenza, è e resta un accidente, benchè necessario ed essenziale. La ragione certo determina l’essenza specifica dell’uomo, distinguendolo dagli animali e dai puri spiriti; e tuttavia determina un soggetto nel quale la ragione sussiste, appunto il soggetto umano o la persona umana.
Definire la ragione come un accidente non è affatto sminuirla, come alcuni temono, perché dire accidente non è altro che una qualifica che tocca l’essere: esse–in, ossia sussistere in un soggetto, che non pregiudica assolutamente la dignità dell’essenza rappresentata da quell’accidente, essenza che può benissimo essere superiore al soggetto stesso al quale inerisce. E questo è proprio il caso dell’uomo, nel quale la ragione è soggettata in una sostanza animale (animal rationale), la quale è con tutta evidenza essenzialmente inferiore al valore della razionalità.
Definire la ragione come accidente della natura umana o del soggetto umano non significa affatto considerarla un elemento secondario, di scarsa importanza, perché qui non mi riferisco all’accidente predicabile (accidens praedicabile), separabile dall’essenza, ma all’accidente predicamentale (accidens praedicamentale), ossia all’ente inerente ad un soggetto. Nell’uomo – lo ripeto – la ragione non è sussistente, ma è inerente al soggetto uomo. Solo in Dio la ragione è sussistente, è soggetto. Al contrario, dal punto di vista della predicabilità, ossia dell’essenza o natura umana, la ragione è notoriamente l’elemento più nobile e necessario a costituire la natura umana.
Il guaio dell’antropologia cartesiana, con la sua res cogitans, è quello di condurre, come estrema conseguenza (ciò che è ormai stato notato dagli storici, come per esempio Maritain, Fabro e Gilson), alla identificazione tra la ragione umana e quella divina, che sarà evidentissima ed anzi esplicitamente teorizzata in Hegel.
L’uomo, dal punto di vista dell’essenza, è un corpo animato da un’anima razionale, quindi dotata della facoltà di ragionare. Ma l’uomo che non può o non vuole esercitare questa facoltà non per questo non resta un uomo, non resta una persona, da rispettare come tale. Resta una persona sussistente in una natura umana, anche se in questo caso essa non si manifesta come tale.
Il relazionismo rende sussistente o sostanziale l’accidente, come per esempio l’azione, l’abito o la relazione. Nasce la conseguenza che quegli individui che non si relazionano o perché non ne sono capaci o perché non vogliono, non sono più considerati persone, per cui possono, in linea di principio, essere eliminati. Si pensi agli embrioni, agli handicappati, ai malati di mente, agli anziani, agli agonizzanti, agli emarginati, alle persone improduttive.
Oppure il soggetto, non distinguendo la sua natura dal suo agire, crede di poter godere di una libertà sconfinata che gli consenta di manipolare la propria od altrui natura, senza tener alcun conto dei caratteri essenziali o dei diritti e delle leggi della natura altrui o dei doveri della natura propria. Questo tipo di personalismo è alla base di quella superbia che porta il soggetto e credersi un dio, dominando sugli altri, svincolato da qualunque legge oggettiva ed autore egli stesso della legge con la quale governa la propria vita.
O viceversa il personalismo relazionista rende accidentale il sostanziale, per esempio subordinando totalmente la persona al sistema sociale, come avviene nelle varie forme di totalitarismo, oppure al singolo governante, come avviene nelle dittature personali. Il relazionismo relativizza la persona, nega la sua assolutezza e quindi comporta un relativismo etico.
Soltanto in Dio l’essere è identico all’agire, per cui in Lui l’agire non si aggiunge come accidente alla sostanza divina, ma Dio è al contempo pura sostanza e pura azione. A Dio non si aggiunge nulla, perché egli è già Tutto. Ma nella creatura umana, di per sé finita, si dà una distinzione reale tra la sostanza o natura umana (animale razionale) e gli accidenti (facoltà e potenze). E questo perché l’agire umano può esserci come non esserci, mentre la sostanza permane. Occorre allora ammettere l’esistere di inclinazioni, facoltà e poteri realmente distinti dalla sostanza, che spieghino come e perché la sostanza resta mentre l’agire evolve.
Soltanto in Dio, come ci spiega il dogma della SS.Trinità, unica Sostanza divina senza accidenti, si dà una triplice relazione sussistente, che è appunto le tre Persone divine, quindi non un soggetto distinto dal suo relazionarsi, come avviene in noi, ma un soggetto che è purissima relazione di paternità, di figliolanza e di spirazione.
Una volta ben chiarito che cosa è l’accidente, non si deve temere di porre le facoltà sul piano dell’accidentale, ovviamente quello proprio ed essenziale, per evitare il rischio gravissimo o della strumentalizzazione della persona o, al contrario, dell’arroganza prometeica propria del superomismo o del panteismo di chi si crede un piccolo dio.
I relazionisti, influenzati da Cartesio, non tengono conto del fatto che nel personalismo tomista l’anima è realmente distinta dalle facoltà, la persona come sostanza è realmente distinta dalle sue potenze come accidenti. Eppure è la pura verità, ed in un’importanza imprescindibile, se vogliamo lavorare efficacemente – e l’esempio dei santi e delle società cristiane qui fanno scuola – per la soluzione dei mali ci affliggono e per l’edificazione del vero umanesimo cristiano.
Bologna, 26 settembre 2011
NOTE
1 – A cura di Giovanni Cavalcoli, Edizioni Fede&cultura, Verona 2009.