dall’Italia, dal Mondo – 19 settembre 2011
a cura di Rita Bettaglio
Agenti segreti nord-coreani contro i missionari in Cina
Un intrigo internazionale con vittime innocenti
Marco Tosatti
Roma
E’ una notizia che riporta ai tempi della Guerra Fredda, e della Cortina di Bambù; in cui forse l’avidità e il desiderio di potenza economica hanno aperto delle falle, ma senza abbatterla alla radice. Ed è una notizia che fa risvegliare nella memoria i più classici thriller di spionaggio, da James Bond in poi. In breve: agenti segreti della Corea del Nord, che vive un delicato momento di trapasso dei poteri all’interno della dinastia di dittatori, i Kim, che la governano in nome del comunismo da decenni, sarebbero all’opera in Cina per eliminare fisicamente e in maniera nascosta i missionari e gli attivisti sud-coreani che lavorano in mezzo ai rifugiati dal Nord vicino alla frontiera.
Un missionario sud-coreano, che appunto si occupava di rifugiati fuggiti da quel paradiso del socialismo reale che è la patria di Kim Jong-il è morto, all’improvviso per strada; senza un motivo apparente. Stava benissimo fino a poco prima, non aveva problemi di salute, ma si è accasciato mentre camminava, ed è spirato in pochi minuti. Tutto avrebbe potuto far pensare a un incidente improvviso – un infarto, un’ischemia – se un altro sud coreano, una volontario che si lavora nello stesso campo di attività del missionario non avesse denunciato qualche cosa di molto grave. E cioè che agenti della Corea del nord avrebbero cercato di ucciderlo. Come? Con un ago intinto nel veleno. Un arma che chi è appassionato di polizieschi riconoscerà subito come uno strumento “classico”. La notizia viene da un giornale del sud, il Joong Ang Daily.
Il quotidiano riporta che il ministero degli Esteri di Seul avrebbe dichiarato di non poter affermare che dietro la morte, e il tentativo di assassinio, ci siano con sicurezza gli agenti di Kim Jong-il; ma comunque i suoi diplomatici hanno chiesto alle autorità cinesi di garantire la sicurezza dei cittadini sud-coreani che vivono e lavorano nei pressi del confine della Corea del nord. Il missionario, un uomo di 46 anni identificato solo col cognome, Kim, si è abbattuto il 21 agosto scorso mentre stava aspettando un taxi nella città di Dangdong, vicina al confine. Sembra che la polizia cinese nel corso di una prima autopsia non abbia trovato nulla; né le ragioni della morte, né tracce lasciate da un’eventuale assassino. Hanno proposto esami più approfonditi, alla ricerca di segnali che potessero essere sfuggiti al primo sommario esame, ma i familiari del missionario avevano fretta di tornare in patria, e hanno preferito cremare il corpo rapidamente.
Ma nel frattempo un altro incidente ha fatto esplodere i sospetti. Un attivista di cui non è stato rivelato il nome, che lavora con i rifugiati nord-coreani a Yanji, nella provincia cinese di Jiin, si è accasciato per strada all’improvviso ed è stato portato di corsa all’ospedale. L’uomo ha raccontato ai medici di essere stato punto al torace con un ago da uno sconosciuto mentre stava facendo la sauna. E ha detto di sospettare che l’ago fosse avvelenato.
Il Joong Ang Daily afferma che gli ambienti dei missionari cristiani coreani sospettano fortemente che in entrambi i casi ci fosse la volontà degli agenti coreani di mettere a tacere voci, e mani che potevano diffondere il dissenso fra i rifugiati, Anche se niente permette di passare dalla fase del sospetto alla prova, e alla certezza.Quello che è sicuro è che entrambe le vittime erano certamente critiche, da un punto di vista umanitario e religioso, del regime di Kim Jong-il. Il missionario morto era molto impegnato nel lavoro evangelico fra i coreani del nord, e il regime lo considerava una minacci seria, secondo Tim Peters, un attivista cristiano con base a Seul, fondatore di “Helping Hands Korea”, un’organizzazione che svolge un lavoro di evangelizzazione e di assistenza ai rifugiati in Cina dalla Corea del nord. E se si accenna a eventualità di questo genere, afferma: “C’è una consapevolezza diffusa fra di noi che il pericolo è sempre in agguato nell’ombra. E’ parte del prezzo che si paga per fare lavoro missionario in quest’area”. Sempre a Yanji, teatro del ferimento durante la sauna, il pastore sud-coreano Kim Dong–Shik è stato rapito, nel gennaio del 2000 e portato nella Corea del nord, secondo le autorità di Seul. Kim aiutava i nord coreani a rifugiarsi in Corea del sud passando per un paese terzo. Di lui non si sa più nulla.
Ma la situazione, dopo questi due episodi recenti, sta diventando preoccupante; e forse anche per la Cina, che sempre più spesso considera che il comportamento degli alleati della penisola sia imbarazzante; specialmente se esercitando la loro creatività all’interno dei confini cinesi. In particolare se il problema raggiunge un livello diplomatico, come in questo caso. Il consolato coreano “ha chiesto con forza agli organi competenti del governo cinese di assicurare la sicurezza dei cittadini della Corea del sud nelle regioni di confine, e di mettere in atto misure tali da evitare il ripetersi di tali incidenti nel futuro”, recita un duro comunicato del ministero degli Esteri.
(Fonte: La Stampa)
HONG KONG: MONS. TONG: PREGATE PER SALVARE LE SCUOLE CATTOLICHE DI HONG KONG
Hong Kong (AsiaNews/Se, 16/09/2011) – La Corte di Appello di Hong Kong si esprimerà il prossimo 3 e 4 ottobre sulla petizione presentata dalla diocesi di Hong Kong contro l’emendamento all’Ordinanza sull’istruzione del 2004 – approvato nel luglio di quell’anno dal Consiglio legislativo del Territorio – che richiede alle scuole in parte sostenute dal governo di introdurre degli organi di controllo per la gestione amministrativa e didattica.
La legge offre diversi benefici per le scuole che mettono in atto l’Ordinanza: assicurazione al personale della scuola; elasticità nella gestione dei fondi; un bonus annuale di 350mila dollari di Hong Kong (circa 35mila euro). Secondo la legge, però, ogni scuola sostenuta economicamente dal governo deve approntare un comitato organizzativo interno (School Management Committee, Smc) con valore legale separato da quello delle istituzioni educative (Sponsoring bodies, Sb).
Il governo sostiene che questo permette una maggiore trasparenza e una migliore democrazia; ma per i gestori scolastici è solo una manovra per intromettersi nella gestione interna e minare la libertà di educazione. Le scuole che rifiutano di applicare il decreto, inoltre, vengono penalizzate: diversi rappresentanti cristiani lo hanno definito “discriminante e razzista”.
Il cardinal Zen, vescovo emerito del Territorio, ha più volte dichiarato che le scuole rette dalla diocesi “non possono vivere senza libertà: se la legge non cambia, siamo pronti a chiuderle”. Il suo successore, mons. John Tong Hon, si sta appellando in questi giorni a tutti i fedeli della diocesi affinché offrano preghiere speciali per il futuro dell’istruzione a Hong Kong; queste preghiere proseguiranno fino alla prima settimana di ottobre, quando si dibatterà sull’appello.
Secondo il legislatore, la legge sarebbe dovuta entrare in vigore il primo gennaio del 2005: data però l’enorme ondata di proteste, la data finale per l’entrata in vigore è stata più volte spostata. Al momento è fissata per il 2012. Nel febbraio del 2010, la diocesi ha perso un primo ricorso presso la Corte di prima istanza. I giudici hanno sostenuto infatti che l’Ordinanza è costituzionale.
Nonostante questo, alla fine dell’anno i giudici di appello hanno garantito alla Chiesa la possibilità di ricorrere di nuovo contro l’Ordinanza “data l’estrema importanza per l’intera comunità e per il futuro dell’istruzione nel Territorio”.
La diocesi sostiene che l’istituzione di Commissioni di gestione delle scuole – composte al 60 % da funzionari nominati e al 40 % da funzionari eletti – mette a serio rischio la possibilità di animare gli istituti scolastici con la propria visione; inoltre, viene minacciata la missione e l’ethos delle scuole, arrivando all’estremo di far perdere alle scuole cattoliche la propria identità.
Fede e status giuridico in Ungheria
Budapest, 12/09/2011.
Entrerà in vigore il 1° gennaio prossimo, ma già, per tutta l’estate, non ha mancato di suscitare polemiche e di innescare un vivace dibattito all’interno della società ungherese. Si tratta della nuova legge sulle Chiese e le comunità religiose presenti nel Paese magiaro. Una normativa che riduce drasticamente — da 358 a sole 14 — il numero delle denominazioni confessionali riconosciute dallo Stato. Tra queste ultime anche la Chiesa cattolica, i cui fedeli rappresentano oltre il 50 per cento della popolazione. Tuttavia, la nuova legge ha messo, per così dire, in «fuori gioco» — anche se ci sarà la possibilità di un «ripescaggio» — non solo minuscole sette dalla dubbia finalità religiosa, ma anche comunità tradizionali, come quelle metodista e islamica. Tanto che un gruppo di intellettuali, ex dissidenti politici durante gli anni del comunismo, ha lanciato un pubblico appello ai responsabili delle istituzioni europee chiedendo il rispetto dei diritti alla libertà religiosa.
La questione è stata anche affrontata dai vescovi cattolici ungheresi nella loro riunione del 6 e 7 settembre scorsi. «Si tratta — ha spiegato a “L’Osservatore Romano” il nunzio apostolico, l’arcivescovo Alberto Bottari de Castello — di una legge che comunemente viene detta sulla libertà religiosa, ma che in realtà riguarda solo la personalità giuridica delle comunità religiose. In pratica lo Stato si riserva la definizione del loro status giuridico». In questo senso, la Chiesa cattolica nei confronti della normativa ha un atteggiamento di «attenzione e rispetto».
Infatti, l’obiettivo dichiarato di questa nuova questa legge, fortemente sostenuta dal Fidesz-Magyar Polgári Szövetség, il partito dell’attuale primo ministro, Viktor Orbán, è quello di arrestare la notevole espansione numerica delle associazioni che, negli ultimi vent’anni, cioè dopo la fine del regime totalitario, hanno beneficiato dell’aiuto finanziario pubblico facendosi appunto passare come comunità religiose. Le realtà escluse dalla lista potranno comunque fare richiesta di essere registrate in seguito. Ma solo dopo l’approvazione da parte dei due terzi dei membri del Parlamento e diverse altre condizioni. Occorrerà, per esempio, esplicitare i contenuti della propria fede, illustrare la propria struttura organizzativa e, soprattutto, dimostrare di essere presenti in Ungheria da almeno venti anni. Un emendamento al progetto di legge, approvato all’ultimo momento, ha cancellato invece tra i requisiti richiesti quello di avere almeno mille fedeli.
La legge in questione è stata approvata il 12 luglio scorso a grande maggioranza dal Parlamento — 254 voti a favore e 43 contrari — ma ha provocato egualmente una serie di proteste e reazioni. A cominciare da quelle di sedici piccole comunità religiose destinate a perdere il loro riconoscimento ufficiale. Queste ultime hanno recentemente depositato un appello presso la Corte costituzionale, sollevando l’obiezione che la nuova legge non garantirebbe la necessaria separazione con lo Stato e violerebbe il principio fondamentale della libertà religiosa. Tali comunità hanno poi inviato una lettera al presidente della Repubblica, Pál Schmitt, al primo ministro Viktor Orbán, allo speaker dell’assemblea nazionale ungherese, László Kövér, come pure a tutti i membri del Parlamento.
Non solo, con una lettera aperta indirizzata alla lussemburghese Viviane Reding, vice presidente della Commissione europea nonché commissario per Giustizia, diritti fondamentali, cittadinanza, e allo svedese Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa, sono intervenuti quindici ex dissidenti — scrittori, intellettuali, politici — che negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso parteciparono al movimento d’opposizione al comunismo. I firmatari — fra cui Gábor Demszky, già sindaco di Budapest, Miklós Haraszti, già rappresentante presso l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, e Ferenc Koszeg, fondatore e presidente dell’Hungarian Helsinki Committee — chiedono «di intraprendere un’azione decisa in difesa della libertà di religione e delle altre libertà fondamentali che si trovano attualmente in grande pericolo in Ungheria». Nel documento si sostiene anche che questa nuova legge priva del loro status numerose comunità religiose, molte delle quali svolgono un ruolo essenziale nel fornire servizi a senzatetto, anziani, rom e altri gruppi sociali svantaggiati. Da parte sua, Zoltán Kovács, il segretario di Stato incaricato delle comunicazioni governative, ha replicato affermando che la nuova legge riconosce «il diritto inalienabile degli individui di scegliere e praticare una religione», anche se poi lo Stato ha individuato quattordici denominazioni per concedere loro dei sussidi speciali in virtù del loro ruolo svolto in campo umanitario.
Tra le realtà escluse, anche quella metodista. Il suo responsabile, István Csernák, pur ammettendo che il cambiamento legislativo risulta «importante e necessario» per filtrare le organizzazioni aventi «finalità commerciali», ha affermato che la sua comunità — attiva da un centinaio di anni nel Paese — è stata letteralmente «sconvolta» nel venire a sapere di essere stata esclusa dalla lista governativa. Parimenti «costernato» si è detto. Zoltán Bolek, capo della comunità islamica ungherese. E Zsolt Balog, leader della comunità buddista Karma-Kagyupa, ha dichiarato che la sua organizzazione si ritiene pienamente compatibile con i requisiti richiesti e che presenterà domanda per essere registrata. Secondo il segretario di Stato incaricato degli affari ecclesiastici, László Szászfalvi, le Chiese e le comunità escluse dalla lista potranno presentare richiesta di riconoscimento durante la sessione autunnale del Parlamento. Tra le realtà cristiane che hanno già detto di volere presentare domanda per il riconoscimento, quella anglicana, la metodista, la pentecostale, l’avventista. Così come due organizzazioni islamiche e una buddista. Le loro domande dovranno essere sottoposte al ministero di Giustizia e poi trasmesse al Parlamento. Szászfalvi ha anche promesso che il suo segretariato garantirà «un livello burocratico minimo e la massima celerità» nella procedura di registrazione. E ha anche aggiunto che il Governo si impegna a garantire che le organizzazioni religiose che gestiscono istituzioni di utilità sociale o scuole, ma che non sono riconosciute nel loro status religioso dalla nuova legge, almeno per tutto il 2012, continueranno a ricevere i finanziamenti statali.
(Fonte: Osservatore Romano)
PERÙ: ATTIVISTI PRO-LIFE CHIEDONO LE DIMISSIONI DI UNO STRETTO COLLABORATORE ABORTISTA DEL MINISTRO DELLA SANITÀ
Lima, Peru,12/09/2011 (CNA).- Attivisti pro-life hanno dato vita a una manifestazione di protesta il 9 settembre u.s. Davanti agli uffici del Ministro della Sanità del Perù, per chiedere le dimissioni di Susana Chavez, recentemente nominata consigliere del ministro. La Chavez è una forte sostenitrice dell’aborto. La Chavez è direttrice di PROMSEX, una ONG che si batte per la legalizzazione dell’aborto in Perù. Carol Maravi, presidente della National Organization United For Life and the Family, ha dichiarato alla CNA di essere sconcertata della scelta di un’abortista come consigliere del ministro della Sanità in un momento “in cui ci sono molte priorità, più importanti di questa, nel paese.”
“Eradicare la tubedrcolosi e la polio, una malattia che recentemente ha causato problemi, e prendersi cura della salute dei nostri cittadini sono problemi più pressanti della promozione dell’aborto”, ha detto. Luis Chavez, un attivista pro-life che ha preso parte alla protesta, ha dichiarato alla CNA che Susana Chavez sta lavorando da ormai 10 anni per legalizzare l’aborto in Perù. “Vuole fare un piccolo primo passo con l’aborto terapeutico per poi passare all’aborto per altre ragioni.” Edy Rodriguez, professore del Pontifical and Civil Theology Department of Lima, ha spiegato che Susana Chavez “riceve supporto finanziario dalla International Federation of Planned Parenthood, che è il più grande fornitore di aborto del mondo,” secondo Rodriguez.
“Ciò è incompatibile coi valori del Perù, col fondamentale diritto alla vita e con la Costituzione peruviana”, ha aggiunto.
BEATIFICATA SUOR ELENA AIELLO, LA MISTICA ITALIANA CHE PREDISSE LA CADUTA DI MUSSOLINI.
Roma, 16/09/2011(CNA/EWTN News).- Il Cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregatiozione per le Cause dei Santi, ha beatificato il 14 u.s. Elena Aiello, suora italiana che ebbe le stigmate e predisse la caduta di Benito Mussolini.
La beatificazione ha avuto luogo il 14 settembre a Cosenza in Calabria, regione di cui era originaria la religiosa. Si tratta della prima beata calabrese.
Durante la celebrazione, il Cardinal Amato ha parlato dell’eroica testimonianza della sua vita e del lavoro svolto a favore dei più poveri. Quarta di 8 figli, ad 11 anni Elena perde la mamma e due anni dopo fa voto di abbracciare la vita religiosa, desiderio che riesce a coronare pienamente solo in età matura dopo tante traversie. Nel 1928 avvia a Cosenza la sua opera per l’accoglienza della fanciulle orfane, che sarà poi la Congregazione delle Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo, riconosciuta nel 1949.
Secondo l’Osservatore Romano, il Cardinal Amato ha sottolineato che suor Elena, che morì a 66 anni, insegnò ai cattolici che “Madre Aiello ci conferma che anche in Calabria è possibile vivere il Vangelo in grado eroico, è possibile, cioè, farsi santi. E la Calabria ha bisogno della bellezza spirituale dei santi.”
Egli ha ricordato che Suor fondò le Suore Minime della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo con la sua “piccola via” verso la santità e la sua mistica partecipazione al mistero pasquale con “gli gli occhi sempre fissi al crocifisso”.
Nel marzo 1922, mentre compiva privatamente la devozione dei “13 venerdì” di San Francesco da Paola, ricevette le stigmate. Da allora le stigmate sanguinavano ogni venerdì nel mese di marzo, soprattutto il Giovedì Santo. Ella fece esperienza di grande sofferenza e del dono della profezia. Tra le molte profezie, suor Elena predisse la tragica fine di Mussolini. “Ricordi quando mo domandasti, lo scorso 7 luglio, cosa sarebbe accaduto al Duce e io ti dissi che, se non fosse rimasto unito al Papa, avrebbe avuto una fine peggiore di quella di Napoleone? Ora ti ripeto le stesse parole: se il Duce non salva l’Italia facendo tutto ciò che dice il Papa, egli cadrà presto,” aveva detto suor Elena.
Ella morì nel 1961.
Parlando ai pellegrini il 14 settembre dopo l’udienza generale settimanale, Benedetto XVI ha dichiarato che “la Chiesa in Italia gioisce per l’elevazione agli altari di una tale anima eminentemente eucaristica.”
“Possa l’esempio e l’intercessione della nuova beata incrementare l’amore di ognuno verso il Santissimo Sacramento,” ha concluso.