di P.Giovanni Cavalcoli,OP
Ai modernisti non sta a cuore la verità ma la modernità, e peraltro una modernità intesa male. Infatti è vero che il moderno può esser meglio dell’antico, ma può darsi anche l’inverso. La concezione moderna della donna, che la vede di pari dignità del maschio e non un essere inferiore, è certamente meglio di quella del passato. Ma, d’altra parte, non c’è dubbio che le guerre moderne sono assai più terribili di quelle del passato.
I modernisti invece prendono il moderno come regola assoluta della verità, come una specie di idolo sacro, salvo poi a concepire la verità in continua evoluzione, per cui il loro “assoluto” è l’assoluto di un giorno, lo stesso assoluto evolve, giacchè per loro il vero di oggi è il falso di ieri e viceversa, secondo il ben noto principio della veritas filia temporis. O come diceva Montaigne: “Il vero al di qua delle Alpi è falso al di là delle Alpi”.
“Moderno” di per sé non è una categoria valoriale, ma semplicemente temporale. “Moderno” può supporre progresso ma anche regresso. Il moderno, il nuovo non è necessariamente il vero e il buono, ma può essere anche il falso e il cattivo. Dunque il criterio per la distinzione del vero dal falso non è il moderno o il nuovo come tale, ma è un punto di riferimento universale ed immutabile al di sopra del tempo. O in altre parole la verità non è adeguazione al moderno o all’odierno, ma al reale, che può essere sì antico o moderno, ma che in fin dei conti e comunque è al di sopra del tempo, come è per esempio la dottrina di Cristo, di Colui che ha detto: “Cielo e terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”, Colui le cui parole, come riconosce S.Pietro davanti al divino Maestro, sono “parole di vita eterna”.
Ovviamente le realtà mutevoli hanno una verità mutevole; ma credere che anche il dogma cattolico avente per oggetto verità divine ed eterne, possa mutare o possa risolversi o meglio dissolversi in una molteplicità sparpagliata di contingenti “modelli rappresentativi” relativi al variare delle culture – come credono oggi alcuni teologi – vuol dire dimenticare che la verità – come rapporto veritativo essere–pensiero – è una sola e quindi dimenticare la coerenza del pensiero, che non ammette che una cosa sia e non sia simultaneamente “per la contraddizion che no’l consente”, per dirla col sommo Poeta.
I modernisti si compiacciono altresì della definizione della verità data da Maurice Blondel, il quale pretende di sostituire la adequatio intellectus et rei con un’adaequatio mentis et vitae, cioè la propria vita, e quindi con la conseguenza che l’io non si adegua più al reale ma a se stesso, per cui l’io viene a porsi al centro del reale come regola del reale.
Da qui discende un altro aspetto della concezione modernistica della verità, ossia il suo storicismo, in quanto, come già denunciava S.Pio X nella Pascendi, il modernismo sostiene che essa è mutevole come è mutevole l’uomo. Ciò ancora una volta suppone il rifiuto dell’idea di verità come adeguazione del pensiero al reale, adeguazione che, perché ci sia il rapporto di verità, non può non essere immutabile, anche se la cosa a cui si riferisce è mutevole o non esiste più: Bruto e Cesare non esistono più, ma resterà in eterno vero che Bruto ha ucciso Cesare. Per questo S.Pio X accusa i modernisti di corrompere l’“immutabile concezione della verità”.
A ciò, come se questa sequela di errori non bastasse, possiamo aggiungere la posizione di alcuni teologi di oggi, i quali rifiutano il concetto realistico di verità per sostituirlo con quello apparentemente fascinoso di “rivelazione”, seguendo in ciò la concezione di Heidegger, il quale vorrebbe rifarsi al senso etimologico greco della parola “verità”, che è alètheia=non latenza. La verità viene così a configurarsi come l’apparire dell’essere o, nella visione fenomenologica più spinta, come semplice apparire, come semplice “fenomeno”, e siamo ancora, con questa seconda concezione, nella dottrina condannata da Pio X sempre nella Pascendi.
Mentre peraltro la concezione del vero come puro apparire è inaccettabile, l’idea della verità come apparire del reale al soggetto non è da respingersi, anche se qui l’apparire non va inteso come apparenza o sembrare, ma come manifestazione ed apparizione: è la cosiddetta verità “ontologica”, verità del reale come adeguato ad un ideale. In tal senso noi diciamo, per esempio, “questo è vero vino!”, “questo è un vero artista!”. Tuttavia la verità intesa in tal senso non esclude affatto ma comporta la verità intesa come adeguazione del nostro pensiero o del nostro giudizio alla realtà delle cose in se stesse – la verità “gnoseologica” -, poiché è solo se il nostro pensiero è verace, che esso può scoprire la verità del reale.
Che poi la verità per il credente sia divina Rivelazione, questo è evidente. Ma questa non è la definizione della verità. Qui per “verità” s’intende la verità della divina Rivelazione; oppure s’intende “Rivelazione” come contenuto della Rivelazione, per dire che esso è vero.
Viceversa, i nuovi modernisti, credendo, come ho detto, di essere “moderni” e magari “postconciliari” (questo è il lato comico della commedia, che rischia di finire in tragedia), respingono la verità gnoseologica, che considerano “superata” (“medioevale”), e pretendono di concepirla solo come “rivelazione”, ossia come atto rivelativo, il che poi in teologia si traduce con la convinzione di ricevere aprioricamente, direttamente e magari “atematicamente” da Dio la verità rivelata, senza bisogno di alcuna previa adeguazione del loro pensiero alla realtà empirico–razionale, ed anzi senza alcuna mediazione o presupposizione dell’esercizio della ragione e quindi senza che occorre la previa conoscenza della verità naturale, circa la quale sono scettici e relativisti, convinti in ciò di esaltare la verità della fede.
Il risultato di tutte queste teorie è sempre lo stesso: la mente umana raggiunge tutto: i fenomeni, la storia, se stessa, la propria esperienza, il subconscio, lo spirito, l’assoluto, tranne che ciò che assicurerebbe ad essa di essere nel vero, ossia la percezione delle cose, il raggiungimento del reale o quella che S.Tommaso chiamava res extra animam.
Tutto questo scetticismo tuttavia non impedisce ai neomodernisti di sentirsi modestamente delle teofanie dell’Assoluto. Infatti, quasi fossero in possesso innato della stessa scienza divina, essi, col pretesto di evitare l’“estrinsecismo”, che non è altro poi che la doverosa distinzione tra naturale e soprannaturale, pretendono di essere dispensati dall’esercizio della ragione dei comuni mortali, credono di saltare a piè pari il piano naturale per ritrovarsi – beati loro – originariamente, immediatamente ed aprioricamente sul piano del soprannaturale o come essi dicono, della “fede” o del “Mistero”, che poi nulla ha a che vedere con la concezione della fede e del soprannaturale definiti dal Concilio Vaticano I.
Senonchè poi che cosa accade? Che questa “fede” viene a sostituire la ragione: non ammettendo un preliminare ed originario atto della ragione fondata sull’esperienza sensibile, intendono la fede come recezione originaria della verità rivelata, una specie di “trascendentale”, per usare la loro stessa espressione, per cui con un solo balzo, garantito dall’autocoscienza di cartesiana memoria e dal fideismo luterano, essi si trovano subito in cielo, pervasi ed illuminati dalla verità divina, dall’unica verità che essi ammettono (che mistici!).
Nel contempo la ragione divenuta “fede” o la fede identificata – lo ammettano non lo ammettano – con la ragione, questa “ragione” confusa con la fede oltrepassa evidentemente i limiti legittimi della ragione, per cui cadono nello gnosticismo o nel razionalismo assoluto, come è avvenuto ad Hegel.
Ma questa è una forma di intollerabile presunzione, per la quale il pensiero pretende di risolvere l’essere nel pensiero (idealismo), come la polverina si scioglie nell’acqua per fare l’aranciata oppure il soggetto pretende di risolvere in se stesso la verità del divino Oggetto (soggettivismo) per “bere il mare”, se vogliamo usare un’espressione di Nietzsche. In entrambi i casi scompare la trascendenza divina ed appare un’“immanenza” che in realtà è la presunzione dell’uomo che si sostituisce a Dio o “inghiottisce Dio”, come ha detto uno di questi teologi.
Così tutta questa esaltazione della “rivelazione”, della “fede” e del “soprannaturale” in realtà si riduce ad essere una forma di razionalismo e di naturalismo, giacchè la verità naturale e la ragione, cacciate dalla porta, ritornano dalla finestra sotto l’apparenza ingannevole e pretenziosa di una “rivelazione”, che in realtà non è altro che loro soggettivistica interpretazione del dato rivelato insegnato dalla Chiesa sulla base della Scrittura e della Tradizione.
Infatti, un altro aspetto della concezione neomodernistica della verità consiste nel sostituire la conoscenza con l’interpretazione (la famosa “ermeneutica”), dimenticando che l’oggetto dell’interpretazione non è la realtà, ma ciò che altri pensa della realtà. Tutto allora si risolve nel sapere non come stanno le cose (che sarebbe la conoscenza della verità), ma ciò che gli altri pensano delle cose, ammesso che credano nelle cose, ma, guarda caso, vanno sempre a cercare autori che rifiutano il realismo o, se sono realisti, ne approfittano per affermare il loro soggettivismo.
Che dice invece Cristo? “Chiunque è dalla verità, ascolta le mie parole” (Gv 18,37), come a dire: se non accettiamo il concetto naturale della verità come adeguazione empirico–razionale al reale, invano potremmo capire ciò che Cristo ci insegna. E’ inutile ed illusorio parlare di una verità rivelata o come rivelazione se non presupponiamo la verità empirico–razionale, ossia quel vero che noi cogliamo naturalmente conformando il nostro giudizio al dato oggettivo. “Chi non è fedele nel poco, non potrà esserlo nel molto”.
La verità cristiana è più che mai adeguazione del nostro pensiero all’essere, in tal caso all’Essere divino. In tal senso S.Paolo parla di un’“obbedienza alla verità” (Gal 5,7) e per questo egli concepisce il suo apostolato come uno sforzo di rendere l’intelligenza di ciascuno “soggetta all’obbedienza a Cristo” (II Cor 10,5). Per obbedire bisogna essere umili. Per questo il realismo è segno di umiltà, che, come è noto, è la virtù cristiana fondamentale, che conduce alla carità, che è il “vincolo della perfezione”. Per contro le altre concezioni della verità sono segni di superbia o quanto meno di stoltezza.
Se quindi non si accetta il concetto verità come adeguazione al reale – il cosiddetto “realismo” – crolla tutto il sapere cristiano. E il correttivo del realismo “ingenuo”, come osserva saggiamente il Maritain, non è l’idealismo o il fenomenismo, ma il realismo critico, del quale i tomisti del secolo scorso ci hanno dati saggi di prim’ordine, tutti meritevoli di essere ristudiati, anche se sono “preconciliari”(1).
Del resto anche gli scettici e gli idealisti non possono fare a meno di quel concetto di verità, che è del tutto spontaneo ed universale e quindi inestirpabile, per quanto essi si arrabattino a volerlo sostituire con assurde alternative. Infatti anche nel momento in cui essi osano negarlo, sono obbligati a farne uso, giacchè dovranno implicitamente affermare, volenti o nolenti, che la loro sbandierata negazione dell’adeguazione al reale è “adeguata al reale”, ossia è vera.
Allora tanto vale abbracciare francamente il realismo e respingere una volta per sempre la concezione idealista e soggettivista della verità, certo caratteristica del pensiero moderno, ma nella sua forma peggiore ed anticristiana.
1) Si pensi al Garrigou–Lagrange, al de Tonquédec, al Ramirez, al Simon, al Gilson, al Gardeil, al Roland–Gosselin, al Toccafondi, al Gredt, ad Alberto Galli, al Lobato, al Perini, allo stesso Maritain, tanto per fare alcuni pochi nomi. Oggi abbiamo come discepolo di tanti Maestri, il Servo di Dio Padre Tomas Tyn (1950-1990).