… l’identificazione con «Charlie Hebdo» di larghe masse della popolazione europea e, tendenzialmente, di tutto l’Occidente significa l’identificazione con il modello totalitario del giacobinismo più estremo… se un popolo abiura alla propria identità, lascia un vuoto, che, prima o dopo, verrà colmato da chi ama la propria identità ed è disposto a combattere per vederla affermarsi nel mondo.
di Carlo Manetti
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«Je suis Charlie»: parrebbe, a giudicare dalla pervasività con cui questa frase risuona nei mezzi di comunicazione di massa, il ritornello o, come si dice nel gergo della musica leggera, il “tormentone” di un orecchiabile motivetto alla moda; si tratta, invece, della sintesi dei valori intorno ai quali l’élite dominante vorrebbe ricompattare l’Occidente o, quanto meno, l’Europa, stante la posizione decisamente più defilata degli Stati Uniti. Charlie sta per «Charlie Hebdo», il settimanale satirico vittima di un’operazione terroristica islamica, che ne ha sterminato i vertici, a partire dal direttore. Pare di senso comune l’identificazione di tutti coloro che si oppongono al terrorismo, come metodo, ed all’integralismo islamico, come dottrina politica, con le vittime di questa strage. La realtà, però, non è così semplice: con lo slogan suddetto, non si richiede una semplice identificazione con le vittime di un crimine, in quanto tali, ma l’identificazione con alcune delle vittime di questo crimine (con i vignettisti del settimanale in questione e non con i poliziotti o i clienti dell’emporio ebraico aggredito), non, quindi, in quanto vittime, ma in quanto portatrici di valori propri, che le fanno preferire alle altre vittime e le elevano al rango di martiri di una religione di Stato, secolarizzata ed atea.
Per comprendere la ragione di tanta predilezione, è necessario chiarire quali siano i valori di cui «Charlie Hebdo» si è fatto paladino. Essi traggono la loro origine dal ‘68 francese, dove le spinte libertarie e lato sensu radicaleggianti si fondono con un sentire da estremismo giacobino, con venature repressive e violente. In questo brodo di coltura, prende forma quell’interpretazione tipicamente francese della laicità, che vede in ogni manifestazione pubblica di fede religiosa un attentato ai cosiddetti «valori repubblicani», vale a dire l’ateismo di Stato in salsa francese. Il settimanale di cui parliamo si colloca esattamente in quest’area ideologica e fa della lotta contro ogni fede religiosa la sua stessa ragion d’essere. L’utilizzo di vignette blasfeme, di bestemmie e della violazione di ogni forma di rispetto nei confronti della religione di volta in volta presa a bersaglio e dei suoi fedeli non è dovuto unicamente ad una scelta stilistica di dubbio gusto, ma è anche e soprattutto la traduzione grafica della sua ideologia: la violenza e la volgarità del linguaggio servono ad esprimere chiaramente il concetto di allarme e di paura nei confronti del fatto stesso che esistano persone che hanno una fede religiosa; la religione o, meglio, qualunque religione è il nemico da colpire, l’ostacolo alla costruzione di quel mondo nuovo che i rivoluzionari francesi hanno cercato di creare.
Ecco che l’identificazione con «Charlie Hebdo» di larghe masse della popolazione europea e, tendenzialmente, di tutto l’Occidente significa l’identificazione con il modello totalitario del giacobinismo più estremo. Oltretutto, questo viene presentato come libertà di espressione, contro l’oscurantismo di tutti gli integralismi religiosi. In quest’ottica, dunque, l’attentato non viene più presentato come islamico, ma come integralista, secondo la logica per la quale tutti gli integralismi religiosi sono uguali e tutti sono nemici della libertà e del progresso. Il termine integralismo o fondamentalismo (le due parole sono utilizzate in maniera assolutamente equivalente) non viene definito, in modo da poter essere applicato a qualunque dottrina religiosa si voglia demonizzare.
Per seguire questa logica, si giunge a negare la matrice islamica dell’attentato e, più in generale, di ogni atto terroristico, riferendolo ad un non meglio precisato fondamentalismo, incompatibile con qualunque tipo di religione; le religioni, rettamente interpretate, non risulterebbero altro che sentimenti personali aventi contenuti identici e perfettamente coincidenti con gli ideali giacobini suddetti e, quando qualcuno pretende che la propria fede si discosti da tali ideali, non è un corretto seguace della sua religione, ma un fondamentalista, che manipola la religione a fini di potere.
Ci troviamo, ancora una volta, di fronte all’applicazione dell’irrazionale principio hegeliano secondo il quale è il pensiero a creare la realtà e non viceversa. Nel caso di cui ci stiamo occupando, sarebbero i principi illuministi a stabilire quale sia il reale contenuto delle varie religioni; tanto come dire che per conoscere ciò che afferma un particolare credo religioso non è necessario esaminare ciò che viene affermato nei suoi libri sacri o ciò che ha detto e fatto il suo fondatore, ma basta, semplicemente, attenersi alle dottrine dell’Illuminismo, perché, qualora qualcuno affermasse che tale religione postula principi diversi, sarebbe un fondamentalista che tradisce la vera natura di tale fede.
Seguendo questa “logica”, si inquadra la serie di attacchi parigini (contro «Charlie Hebdo», contro due poliziotti intervenuti per un incidente stradale e contro l’emporio ebraico) non nella plurisecolare contrapposizione del mondo islamico a quello cristiano ed occidentale, ma nello scontro tra il mondo dei «valori repubblicani», al quale, ovviamente, appartengono i seguaci di tutte le religioni rettamente interpretate (perché, come dicevamo, tutte le religioni sono, sostanzialmente, uguali e sostengono i valori dell’Illuminismo), ed il fondamentalismo. Ci si illude, così, di eliminare ogni legame tra l’Islam e queste aggressioni.
«Parigi oggi è la capitale del mondo» aveva detto ai suoi ministri il Presidente François Hollande, immediatamente prima di prendere parte, insieme alla stragrande maggioranza dei capi di Stato e di Governo europei ed a quelli di alcuni Paesi africani ed asiatici, alla «grande marcia repubblicana», svoltasi nella capitale francese l’11 gennaio scorso, all’insegna del «Je suis Charlie». Ma tanto orgoglio appare giustificato?
Ad una prima analisi, ci pare di poter dire che la lettura ideologica e mistificatrice che abbiamo descritto del terrorismo islamico non solo non ha prodotto un rafforzamento francese nel mondo, ma, di fatto, ha mostrato le gravi lacune militari e politiche del paese transalpino.
Sul piano dell’ordine pubblico e della difesa del territorio nazionale dalle incursioni dei terroristi islamici, la Francia ha dato pessima prova di sé. Due terroristi hanno attaccato, a piedi ed armati di fucili mitragliatori, un settimanale satirico, la cui sede precedente era stata già distrutta nella notte tra l’1 ed il 2 novembre 2011, il cui sito Internet era stato bersaglio di un attacco informatico e che era dichiaratamente un obiettivo dell’integralismo islamico, a causa delle sue vignette contro Maometto e la sua religione. Questo, che era, ovviamente, un obiettivo sensibile di primaria importanza, non ha goduto di alcuna particolare difesa, se non della presenza della guardia del corpo del suo direttore, anch’essa perita nell’incursione. Dopo la strage, i due terroristi sono fuggiti in auto, si sono scontrati con alcune pattuglie di agenti e ne hanno ucciso uno. La Francia ha mobilitato 88.000 uomini, tra agenti di polizia, membri della Gendarmeria e militari, per presidiare la zona di Parigi e catturare il commando.
Tale dispiegamento di forze non è riuscito a catturare i due fuggitivi, che si sono diretti a nord-est. All’indomani della strage, due poliziotti, accorsi in seguito ad un incidente stradale, sono stati colpiti con un fucile mitragliatore da un uomo nella città di Montrouge, a sud di Parigi; la poliziotta è morta ed il suo collega e rimasto seriamente ferito; l’attentatore si è dileguato. Il giorno successivo, il medesimo attentatore ha compiuto un’incursione in un supermercato alimentare ebraico: era l’ora di pranzo di venerdì, momento di massima affluenza, in vista della preparazione del pranzo del sabato. Con la presenza di 88.000 uomini nella zona di Parigi, non si è pensato che questo potesse essere un obiettivo terroristico. Risultato: quattro persone uccise nell’emporio ed altre quattro seriamente ferite, prima che i militari uccidessero il terrorista.
I due attentatori di «Charlie Hebdo», nel frattempo, lasciano il documento di identità di uno di loro sull’auto che sono costretti ad abbandonare per un incidente; sottraggono una seconda auto ai legittimi proprietari e riprendono la fuga. Nemmeno dopo aver identificato uno di loro le forze dell’ordine ed i militari riescono a catturarli. Essi invertono la marcia e ritornano verso Parigi; fanno rifornimento di carburante ad una stazione, dove il gestore nota, sul sedile dell’auto, armi da guerra e dà l’allarme. Sono, finalmente, bloccati ed uccisi in un conflitto a fuoco in una tipografia, nella quale si erano asserragliati, nella cittadina di Dammartin-en-Goële, non lontano dall’aeroporto Roissy Charles de Gaulle.
Se sul piano militare e dell’ordine pubblico non si può certo parlare di successo, sul piano diplomatico il Governo francese si fa forte della grande partecipazione di delegazioni straniere alla «grande marcia repubblicana». Anche da questo punto di vista, però, la ricostruzione trionfalistica lascia aperti alcuni interrogativi. La partecipazione alla marcia non può essere considerata in alcun modo un indice significativo della determinazione a combattere il terrorismo. A riprova di ciò possiamo citare due esempi di segno opposto, ma che dimostrano come presenza autorevole nelle strade parigine l’11 gennaio e lotta al terrorismo islamico siano due cose completamente diverse. Il Marocco, impegnato in una politica di progressiva laicizzazione dello Stato, ha rifiutato espressamente di partecipare alla marcia, per la presenza di vignette considerate blasfeme nei confronti dell’Islam. La Turchia, invece, che non ha mai fatto mancare il suo sostegno all’Islam politico, a partire dalle “primavere arabe”, e che ha rifiutato qualunque intervento contro il Califfato, era presente con il suo primo ministro, Ahmet Davutoglu.
Molto particolare, poi, è stata la presenza del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu. Il governo di Gerusalemme, immediatamente dopo l’attentato al negozio ebraico, ha offerto a quello francese il supporto del Mossad; il gesto è apparentemente di amicizia e di solidarietà, ma lascia intravedere, in maniera neppure troppo velata, una pesante critica alla gestione della sicurezza e, soprattutto, della prevenzione delle autorità di Parigi. Il primo ministro, poi, dopo aver partecipato alla marcia, si è recato in visita alla sinagoga della capitale transalpina, dove ha offerto la possibilità della sepoltura in Israele per le vittime ebraiche dell’attentato, ponendo le premesse per ciò che avrebbe detto durante le esequie. Nel corso dei funerali, ha ribadito la lettura identitaria e nazionale del popolo ebraico, propria del «sionismo revisionista»[1], affermando che gli ebrei hanno, ovviamente, il diritto di risiedere in ogni parte del mondo, ma che la loro patria storica, cui debbono, almeno affettivamente, sempre tendere è Israele e solo Israele. Queste parole, nell’attuale contesto della Francia e della comunità ebraica francese, assumono un significato particolare.
Gli ebrei francesi sono circa 600.000 e la loro immigrazione in Israele è cresciuta moltissimo negli ultimi due anni e, soprattutto, nel 2014, passando da una media di 2.289 immigrati l’anno nel periodo 2004-2012 a 3.293 nel 2013 ed a circa 7.000 nel 2014. Il clima di insicurezza è cresciuto ed è alla base di questi dati. L’attentato contro il negozio alimentare ebraico e, soprattutto, le modalità con cui si è svolto e l’assoluta mancanza di prevenzione delle autorità francesi rischia di incrementare questi sentimenti. Ecco che le affermazioni del primo ministro israeliano possono contribuire ad imprimere un’ulteriore accelerazione dell’emigrazione degli ebrei francesi verso la Palestina.
Nell’attuale contesto internazionale, nel quale, quanto meno a partire dalla fine della Guerra Fredda, i rapporti tra gli Stati ed i popoli si sono sempre più caratterizzati come un confronto fra le diverse identità, l’identificazione della Francia e dell’Europa nel motto «Je suis Charlie» rischia di divenire il più grande regalo possibile all’integralismo islamico e, soprattutto, alle sue correnti più belliciste. La natura, come diceva Aristotele (384-322 a.C.), aborrisce il vuoto e questo vale anche nei rapporti tra i popoli: se uno abiura alla propria identità, lascia un vuoto, che, prima o dopo, verrà colmato da chi ama la propria identità ed è disposto a combattere per vederla affermarsi nel mondo.
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[1] Il sionismo revisionista, fondato da Vladimir Jabotinskij (1880-1940), è la dottrina politica che pone in evidenza la contraddizione insita nel sionismo classico, che, pur presentandosi come movimento nazionale ebraico, non vede negli ebrei una nazione, ma sottolinea la cosiddetta «specificità ebraica», pretendendo di portare anche nel futuro Stato i sentimenti anti-nazionalisti, che avevano caratterizzato buona parte dell’ebraismo diasporico. Il sionismo revisionista, invece, identifica negli ebrei un popolo, in senso nazionale, attribuendo al futuro Stato di Israele tutte le caratteristiche di uno Stato nazionale, di cui le comunità diasporiche sarebbero state parti integranti della popolazione, momentaneamente residente all’estero.
7 commenti su “«Je suis Charlie». Lo slogan giacobino – di Carlo Manetti”
Interessantissimo tutto l’articolo, chiarissimo su cosa E’ e a cosa può portare «Charlie Hebdo».
Molto importante e significativo anche quanto scrive riguardo agli ebrei, al sionismo.
Grazie, caro Manetti!
La grande massa delle persone che ripetono il mantra “Je suis Charlie”, non credo ragionino in maniera indipendente e informata. Partecipano ad un gesto collettivo; cercano una sorta di unità in nome di una generica libertà; compiono soprattutto una specie di flash-mob, tanto fa moda. L’importante è partecipare, anche se non si è capito in profondità il motivo. Non c’è una grande differenza con gli slogan ripetuti, altrove, nel mondo, in nome del fideismo di turno. Io non sono Charlie, perché credo ad una Realtà trascendente e ad una Rivelazione che si è compiuta nel tempo, e la ragione e la Parola di Dio, mi hanno convinto che il Cristianesimo è l’unica religione vera, che conduce l’Uomo a vivere in pienezza e in pace con se stesso e con gli altri. La fede isterica, come il fideismo islamico, porta alla follia collettiva analogamente al disconoscimento di Dio nella vita dell’Uomo. L’ateismo blasfemo rivela un vuoto che non può essere placato neppure con una Repubblica dei diritti infiniti.
Je suis MANETTI!!!!
Bruno
Però poi votano il Fronte Nazionale che dovrebbe pensarla in maniera diametralmente opposta ai giornalisti anarco comunisti di Charlie…Mah!!!
Non è così, caro Camerata.
Conosco direttamente la Francia: essa è divisa visibilmente fra un establishment (o “intellighentsia”) totalmente massonico e dirigista, intenzionato a trattare ogni singolo “citoyen” come particella infinitesima dell’Ordine Cartesiano Perfetto e Assoluto, e una vasta popolazione di piccola gente che spera di non entrare nel mirino dell’Apparato (o sotto lo Sguardo della Piramide). Nei casi migliori – rari ma non eccezionali – vi sono nuclei familiari con diversi figli che vivono “indipendentemente” dall’Apparato.
La novità grandiosa dell’anno scorso sono state le manifestazioni oceaniche osteggiate dalla Piramide, cioè quelle per affermare che “Papà” non è uguale a “Mamma”.
Ho l’impressione che si tratti delle più vaste manifestazioni non (direttamente) religiose MAI AVVENUTE NELLA STORIA
La sinistra è stata assai abile, in Francia come da noi, a strumentalizzare la manif di Parigi contro la signora Le Pen e contro tutti coloro che credono nella necessità di difendersi con virile energia contro il terrorismo islamico. I commentatori laicisti poi non hanno perso l’occasione per insinuare che tutte le religioni sono fanatismi insani e illusorii. Purtroppo da destra non si sono levate voci autorevoli di protesta perché gli intellettuali cattolici sono sempre oscurati dai media. E’ una vera fortuna che ci sia Riscossa Cristiana.
Je suis catholique!!!