di Piero Vassallo
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La tragedia del fascismo italiano ha un preambolo realista, cui segue una temeraria e non motivata decisione. Preambolo ragionevole è il memorandum indirizzato da Mussolini a Hitler per ricordare che l’eventuale (nel gennaio del 1940 ancora improbabile) vittoria tedesca sulla Francia avrebbe messo in allarme l’America e provocato il suo temibile e risolutivo intervento. Inspiegabile e forse misteriosa è la contraria decisione, maturata dall’uomo della pace, il 10 giugno 1940: dichiarare la guerra a Francia Inghilterra, sapendo che la potenza americana avrebbe deciso l’esito del conflitto.
Fra i due opposti preamboli una fitta zona d’ombra, che gli storici non hanno ancora dissipato. Un segreto che, probabilmente, era nascosto nella borsa sequestrata a Mussolini a Dongo. In quella carte è probabile che si trovi il seguito della tenebrosa storia che ebbe inizio nell’estate del 1939, quando gli anglo-francesi convinsero il governo polacco a non sottoscrivere un ragionevole accordo su Danzica, promettendo un loro risolutivo (e poi mancato) intervento.
Il pensiero dei neo-fascisti tuttavia non fu tormentato dall’impossibilità di far combaciare i due opposti stati d’animo del duce: il ragionevole timore della potenza americana e la decisione di entrare in una guerra, il cui esito si sapeva ipotecato dal previsto intervento della democrazia messianica d’oltre Atlantico.
Forse i fascisti erano incapaci distinguere il duce di parola bellicosa dal duce d’intenzione realistica, l’uomo allarmato dall’incombere di una tragedia sull’Italia e l’uomo tentato dall’avventura. Forse nel loro pensiero la parola del duce contemplava la guerra come sale della vita, prova decisiva richiesta da un ineludibile, sovrumano destino.
La sconfitta fu vissuta pertanto come un imprevisto del quale erano responsabili i traditori della patria, non come il fatale risultato della inspiegabile e inspiegata decisione del 10 giugno.
Un geniale tentativo di violare il mistero della guerra fascista rovesciandolo in un immaginario dialogo filosofico, il confronto di Mussolini con gli eroi tragici di Nietzsche e di Ibsen, fu compiuto da Donatello D’Orazio (Chieti 1896 – Roseto degli Abruzzi 1986), giornalista di polso e brillante narratore attivo nei fiammeggianti decenni del Novecento italiano.
La drammatica fine della avventura fascista aveva sorpreso D’Orazio a Salò, in casa di amici: riuscì a sfuggire alla insaziabile, universale giustizia dei partigiani e a riparare nella natia Chieti, dove incontrò la spinosa ostilità dei democratici.
Scampato alla radiosa mattanza del 1945, fu gravato dal disprezzo dei pochissimi antifascisti di lungo corso e dei numerosi, sgradevoli voltagabbana. Fu emarginato e costretto a fare esperienza dell’umiliante e amara povertà.
Renato Besana rammenta che D’Orazio pubblicò nel 1956 “i Colloqui di Mussolini con Brand e Zarathustra [che sono ora riproposti da Marco Solfanelli, editore in Chieti]. Erano momenti per lui difficilissimi. L’adesione alla Repubblica sociale – da giornalista, non da combattente – l’aveva condotto prima a Genova, caporedattore del Lavoro poi sulle rive del Garda. … Riuscì fortunosamente a raggiungere Roma e quindi Chieti, che aveva lasciato trent’anni prima. Il suo mondo non esisteva più. Non ancora cinquantenne si trovò nell’indigenza”.
I Colloqui, ristampati con sagace scelta da Solfanelli, esaminano la vicenda di Mussolini dal punto di vista di Nietzsche, il filosofo del superuomo, opposto a quello di Ibsen, il drammaturgo che ammirava Soren Kierkegaard e che ha narrato l’esito catastrofico delle superbe/fanatiche imprese.
D’Orazio immagine un confronto dialettico che Mussolini, prigioniero a Ponza, in realtà evitò, preferendo la lettura della Vita di Cristo scritta dall’abate Giuseppe Ricciotti alla lettura di Nietzsche, la cui opera omnia gli era stata fatta recapitare da Hitler.
I Colloqui tuttavia sono una fedele rappresentazione del destino faustiano, in oscillazione tra la febbre superomista – l’errore del secolo sterminato – e la provvidenza, in cammino contro il sogno.
Zarathustra e Brand. Nietzsche superuomo di ruggente parola e di mite comportamento. Ibsen narratore della catastrofe incombente nel delirio progressista. Zarathustra grida contro il cielo. Brand superuomo allucinato, ascende la montagna della propria celeste rovina. Il fanatismo di un filosofo umiliato e il delirio filosofante di un personaggio tutto di un pezzo. L’incendiario apogeo della modernità pensante e l’ironia kierkegaardiana di Ibsen, che annuncia il delirio del secolo secondo Brand.
Nietzsche e Brand sono le forche caudine sotto le quali si è piegata la superbia del secolo nutrito dalla megalomania gridante Mamma voglio il sole.
La filosofia di Zarathustra ispira un giudizio sugli italiani di Mussolini: “Furono quali io li volli. Non so se furono molti ma uno lo posso indicare: scrisse sulla facciata d’una casa a specchio nel lago [in Macedonia] di Ocrida: Combattente disoccupato cerca piccola guerra”.
Gli italiani di Mussolini si batterono con valore, se ne accorsero gli inglesi sbaragliati dai nostri a Tobruk nell’estate del 1943, lo ha ricordato di recente Paolo Pasqualucci.
Mussolini tra il furore, gridato sopra le righe del superuomo incombente sul Nietzsche mite e cortese, e la lucida e spietata confutazione ibseniana del titanismo. Il duce, che rammenta la sua natura di Uomo della Provvidenza prima di entrare nella tragedia che lo renderà simile e dissimile al Brand ibseniano. Simile nella sventura, dissimile nell’accettazione del pesante incarico assegnatogli da Hitler
D’Orazio ha narrato la vicenda di Mussolini avanzando – con dialettica elettrizzante – tra gli equivoci furori del superomismo e la dura intransigenza della moralità. Oltre i dilemma, il suo dialogo ha fatto intravedere la vera persona dell’italiano tentato dalla grandezza della patria e schiacciato tra poteri forti e contraddizioni invincibili.
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fonte: blog dell’Autore