di don Marcello Stanzione
L’agenzia Ansa con un articolo quasi celebrativo, che lo presenta come un eroe o un benefattore dell’umanità, ha dato notizia della morte ad 83 anni del medico Jack Kevorkian in un ospedale americano. Kevorkian per far soldi invece di curare i malati, o forse perché non era all’altezza di curarli, procurava loro il “ suicidio assistito” e cosi aveva spedito al Creatore oltre 130 malati. Ma nel 1999 era stato condannato a 25 anni di galera per omicidio di II grado per aver effettuato una iniezione letale a Thomas Youk. Dopo appena otto anni di carcere era uscito nel 2007, a condizione che non praticasse più l’eutanasia. E’ vero che etimologicamente “eutanasia” significa “morte dolce” o “indolore” o “buona morte”, ma più realisticamente è una forma di omicidio perché si infligge una morte indolore:
– a una persona che sottostà a un processo morboso che, in un tempo più o meno breve, la porterà necessariamente alla morte;
– a persone che non sono in punto di morte, ma sono malati inguaribili, vecchi inabili e non autosufficienti, malati di mente, handicappati gravi, bambini nati con gravi malformazioni fisiche o psichiche.
In questo senso, l’atto comprende l’intenzione di uccidere e l’uso di mezzi che danno la morte, indipendentemente dal consenso della persona su cui si pratica. L’eutanasia può essere attuata in due maniere:
– compiendo un atto che dà la morte (ad esempio, somministrando un farmaco che uccide);
– non praticando le cure ordinarie necessarie a tenere in vita una persona.
I motivi che spingono a praticarla possono essere vari:
– può essere la pietà per le sofferenze di una persona cara o per la vita infelice di un bambino menomato;
– può essere il dovere per un medico che vuole evitare inutili sofferenze ad un malato, sofferenze considerate anche come offensive della dignità umana;
– può essere l’egoismo di chi vuole esimersi da fastidi e spese per cure costose;
– può essere la necessità di liberare la società da oneri economici e sociali che malati inguaribili, anziani inabili, handicappati, malati di mente…comportano;
– può essere voluta dalla stessa persona malata per porre fine alle proprie sofferenze.
Comunque sia, l’eutanasia, nel senso proprio, è sempre diretta e attiva, cioè comporta l’intenzione di dare la morte e un’azione che per sua natura la produce direttamente, come effetto primario. Non è esatto parlare di “eutanasia indiretta” quando si somministrano farmaci il cui scopo primario è alleviare il dolore e quello secondario un possibile abbreviamento della vita. Non è esatto parlare neanche di “eutanasia passiva” quando si sospendono interventi e terapie che non giovano più al malato e gli procurano ulteriori disagi.
Dal punto di vista medico esistono problemi etici e condizionamenti dovuti a incertezze scientifiche circa i pazienti terminali. C’è da tenere presente, intanto, un fattore psicologico, quello del medico che, malgrado tutto, vede inesorabilmente avvicinarsi la morte per il suo paziente, ma occorre sottolineare anche un fattore deontologico, del medico cioè che accompagna il malato nelle ultime fasi della vita perché sia qualitativamente accettabile, fino a un trapasso dignitoso e sereno, con la riconquista della dignità della morte. Le continue acquisizioni scientifiche e tecnologiche, soprattutto nel campo della rianimazione, hanno posto al medico il problema se e quando intervenire con tali sofisticati e costosi mezzi e se e quando sospenderli. Tali problemi portano a ulteriori considerazioni e chiarimenti sul concetto di vita e di morte. Oggi si ritiene che la vita sia strettamente connessa con le funzioni cerebrali, corticali in particolare, come la coscienza e il pensiero; l’assenza irreversibile di tali funzioni è considerata “morte”. Fin qui è chiarissimo, ma a creare perplessità è proprio la “irreversibilità” che è statisticamente probabile, ma mai certa. Tanto è vero che vengono applicati criteri rigorosi prima di dichiarare la “morte encefalica”. A titolo di esempio si può citare la stessa legge italiana, n. 644 del 3.12.1975, che all’art. 4, prevede che la morte possa essere dichiarata quando nel soggetto siano presenti contemporaneamente:
- Coma profondo accertato dall’assenza di attività elettrica celebrale spontanea e provocata, accompagnata da: atonia muscolare; areflessia tendinea dei muscoli scheletrici innervati dai nervi cranici, assenza dei riflessi plantari, midriasi paralitica con assenza del riflesso corneale e del riflesso pupillare alla luce.
- Assenza di respirazione spontanea, dopo sospensione, per due minuti, di quella artificiale. Tali fenomeni dovranno essere presenti ininterrottamente almeno per dodici ore, in assenza di somministrazione di farmaci depressori del sistema nervoso centrale e di condizioni di ipotermia indotta artificialmente.
Da questo si può contrastare come il concetto di morte sia complesso e non si identifichi così semplicemente con un tracciato elettroencefalografico piatto. Anche perché sono praticamente sconosciute in gran parte le capacità di ripresa di un organismo o di un singolo organo, che accrescano ancora di più le incertezze. Anche il problema della sospensione di una terapia sproporzionata agli esiti prevedibili, teoricamente è incomprensibile, ma nella prassi medica concreta è costellata di altre incertezze. Certamente, di fronte a queste obbiettive difficoltà, non è semplice per un medico prendere quelle decisioni che, nello stesso tempo, debbono essere motivate da appropriate conoscenze tecniche e debbono appellarsi alla sensibilità morale e umana. C’è poi l’altra importante tematica della terapia del dolore. Il dolore è presente in un’alta percentuale di pazienti terminali ed è dolore continuo, intollerabile, ribelle ai comuni analgesici, che non consente alcuna attività, che stravolge completamente la vita, inducendo spesso il paziente a desiderare la morte. Anche per questo caso le incertezze e i comportamenti sono tanti, però la terapia del dolore è in rapida evoluzione e offre buone prospettive per superare la tentazione dell’eutanasia. In definitiva, si vuol dire che la scienza medica è in continuo sviluppo e pone sempre nuovi interrogativi di comportamento a cui non è sempre facile rispondere. Il medico, in particolare, che si trova dinanzi ai quesiti fondamentali dell’uomo, come il significato della vita, della morte, del dolore, è in prima linea nella ricerca delle risposte; è indispensabile che non si trinceri dietro comode esigenze tecnologiche, ma sappia appellarsi anche alle proprie convinzioni morali, filosofiche o religiose.
Poiché la discussione sull’eutanasia è condotta a partire da principi etici o religiosi, al giurista è riservato uno spazio esiguo e la questione stenta a imporsi come giuridica. Per di più, in un’epoca di pluralismo etico, in cui ogni ideologia chiede spazio e riconoscimento, sembra impossibile progettare una legislazione rappresentativa di tutte le posizioni. Questo avviene se il giuridico si fa coincidere con il legale che non ha una moralità propria e deve assumerla da altre fonti; il diritto invece ha una propria moralità perché: garantisce la razionalità; è relazionata tra soggetti qualificati da parità ontologica; tali soggetti sono considerati attraverso la dinamica della universalizzazione delle azioni. Da questi modelli universali, però, escono le azioni non tipicizzabili: quelle eccezionali, indotte da cause imprevedibili, da forza maggiore… Secondo questa logica, l’eutanasia è un evento limite che, per la sua imprevedibilità ed eccezionalità, dovrebbe sfuggire a ogni regolamentazione, soprattutto perché affonda le sue radici in una dimensione, la pietà, di cui è difficile anche parlare. Sta di fatto che l’eutanasia, di cui si discute ordinariamente, non è più quella del caso limite, perché essa rientra nelle possibilità reali del vivere contemporaneo, quindi in un modello che può essere previsto e definito normativamente superando la valenza eufemistica del termine e l’equivocità del ruolo specifico di chi viene ucciso e di chi uccide. Il diritto distingue innanzitutto due grandi categorie nell’eutanasia : quella propria e quella impropria. L’eutanasia impropria non trova grandi problemi nella logica del diritto contemporaneo. Ecco alcuni casi: il paziente rifiuta di sottoporsi alla terapia necessaria alla sopravvivenza. In questo caso vale il principio “voluntas aegroti suprema lex” che esonera il medico da ogni responsabilità; si sospendono le cure necessarie alla sopravvivenza a carico di pazienti terminali. E’ l’eutanasia passiva che è giuridicamente illecita perché il medico ha il mandato di curare e di sostenere la vita, mentre il ,paziente si presume voglia mantenersi in vita. Tale mandato cessa se sopraggiunge la morte cerebrale: ma su questo si può dibattere, come accennato sopra; si procede alla sospensione dell’accanimento terapeutico. Viene riconosciuta la liceità di questa forma perché fuori della prassi medica ordinaria, diviene spesso manipolazione del corpo del malato, talora sperimentazione o addirittura oggetto di lucro; si somministrano farmaci per lenire il dolore intollerabile dei malati terminali. Se la terapia è un aiuto a morire è chiaramente illecita, ma se è strettamente lenitiva è lecita e doverosa; si procede all’eutanasia eugenetica. L’illiceità di tale forma ha diverse motivazioni: il diritto è chiamato a tutelare la vita malata non la sana; si discriminano i malati rispetto ai sani e si viola la parità ontologica tra gli uomini, per cui la vita non andrebbe tutelata in sé, ma in virtù della sua qualità; se si sostiene che alcune vite geneticamente tarate sono prive di qualità, lo si deve sostenere anche di chi si macchia di delitti; l’eutanasia eugenetica, se giuridicizzata, appare incompatibile con la sicurezza che ogni soggetto chiede dal diritto; si procede all’eutanasia attiva su paziente non consenziente. E’ illecita giuridicamente, anche se può avere comprensibili attenuanti psicologiche, umane e sociali. E’ quella che riscuote maggiore solidarietà nell’opinione pubblica, mossa dalla pietà per le sofferenze della vittima. Ma è quella in cui emerge una obbiettiva violenza del più forte sul più debole, con la pretesa di fare il bene del malato.
L’eutanasia propria o eutanasia attiva su soggetto consenziente, è come se la società in cui viviamo si sia prefissa di rimuovere l’ultimo grande tabù che grava su quella privatissima dimensione che è la morte. Comunque, tenendo conto di questa affermazione, possiamo dire che gli elementi strutturali dell’eutanasia proprio sono: la pretesa di un soggetto, responsabile, di essere soppresso al realizzarsi di circostanze da lui stesso precedentemente determinate; l’impegno di un operatore di venire incontro a tale pretesa; l’interesse pubblico a controllare la validità della richiesta e la correttezza del suo adempimento. Diverse associazioni nel mondo ormai propagandano questa eutanasia come un diritto fondamentale dell’uomo e suggeriscono la redazione del “testamento biologico” come base legale per la legittimazione dell’intervento di eutanasia. L’illeceità giuridica propria ha due prove basilari: altera in modo inaccettabile la struttura relazionale del diritto; le situazioni umane di angoscia e di incertezza (perché si progetta morte per mano altrui e non per mano propria?) non sono riconducibili a commi e articoli di legge. In conclusione, non sembra proprio urgente una legislazione innovativa sull’eutanasia ; quello che invece preoccupa è: la normativa sempre più complessa sul trattamento sanitario dei malati terminali che indirettamente riconoscerà l’eutanasia; la scomparsa nella coscienza collettiva dell’arte di morir bene, dell’accettazione umana della morte, della partecipazione alla morte altrui; la sostituzione della morte con il decesso, soggetto ad una pura procedura sanitario-amministrativa, per cui anche la logica dell’eutanasia non sarà gestita in nome dei diritti della vita e della morte, ma in ossequio a un progetto di regolamentazione totale dell’esistenza individuale: non sarà un problema di coscienza, ma di organizzazione socio-giuridica. C’è proprio da riflettere….
4 giugno 2011