per gentile concessione degli Autori e dell’Editore, pubblichiamo il prologo del nuovo libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro. Il libro sarà in distribuzione nei prossimi giorni in tutte le librerie e può essere acquistato anche on line, cliccando qui
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La Bella Addormentata – di Mario Palmaro e Alessandro Gnocchi
Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà
Prologo
Perché non possiamo non dirci in crisi. Uno sguardo sul presente.
E uno spiraglio sul futuro
«Bella» perché, nonostante i nostri peccati, le nostre debolezze, i nostri tradimenti, i nostri errori, la Chiesa cattolica continua a essere, e sarà sempre, l’immacolata sposa di Cristo. «Addormentata» perché, in questi decenni, il peso dei nostri peccati, delle nostre debolezze, dei nostri tradimenti, dei nostri errori ha prodotto una crisi che ha ridotto al lumicino il vigore dottrinale e morale di tanti, troppi suoi figli.
Non sarà un’immagine perfettamente teologica, ma la «Bella Addormentata», con quella sua aria antica e fiabesca, induce volentieri a farsi bambini e permette anche a cattolici di scorza rustica di dire liberamente tutto l’amore che portano alla Chiesa e, insieme, tutto il dolore che provano per i travagli che la agitano. Senza darle della peccatrice, senza attribuirle colpe che non le appartengono e senza caricarla di pene che non le spettano. Ma neppure costringendosi al silenzio per timore di rompere il grande sonno nel quale tanti suoi membri si sono assopiti a occhi aperti. E, ancor meno, rinunciando alla ricerca di quella chimica dell’anima che ha generato una crisi epocale.
Fenomenologia del grande sonno
«Non credo che esista una categoria ecclesiologica che possa spiegare il non rapporto tra il Vaticano II e lo stato presente della Chiesa cattolica. Non serve nemmeno la categoria della recezione. Che cosa si sarebbe dovuto recepire, visto che il Concilio non si è preoccupato di insegnare? […] Il Concilio ha distrutto un ordine cattolico che non voleva distruggere e ha prodotto una crisi dottrinale che prima non c’era. Il Vaticano II ha prodotto una situazione in cui sarebbe stato normale chiedere la convocazione di un nuovo Concilio: e non lo si è potuto fare perché, appunto, il Concilio è già avvenuto. Né si può dire quale sarebbe l’oggetto di una convocazione di un Concilio dottrinale, perché l’unico oggetto possibile sarebbe dato proprio dai problemi nati dalla mancanza di insegnamento del Vaticano II. […] Tutti constatano la crisi ma nessuno vuole dire che è stato il Concilio a produrla; non con un gesto positivo ma con un gesto negativo: quello di non procedere a definizioni dottrinali. L’evento di crisi richiede un insegnamento e, poiché l’insegnamento è autorevole, l’insegnamento richiede sempre la condanna. Ma qui la crisi nasce proprio dal fatto che non si sa quale sia lo stato della dottrina cattolica dopo il Concilio». Secondo questo breve estratto delle due pagine con cui don Gianni Baget Bozzo apriva nel 2001 il saggio L’Anticristo, è abbastanza chiaro dove e quando sia stata prodotta la chimica del grande sonno. Se l’aria malsana del modernismo rinascente covava ben prima del Concilio, bisogna onestamente collocare nella ventunesima assise ecumenica della Chiesa cattolica lo snodo della crisi. Prima ancora che la logica, come ha illustrato Baget Bozzo, lo dice il calendario. Ma le date e i fatti, molto più delle opinioni, sono così impietosi che troppe volte vengono rimossi. E spesso neanche in cattiva fede, solo perché fanno male.
L’aggiornamento viaggia su uno spiderino rosso
Però i fatti sono fatti, e se qualcuno preferisce rimuoverli ci pensa la letteratura a riportarlo con i piedi per terra.
Lo spiderino rosso svoltò deciso dentro il cortile della canonica e ne scese un giovanotto magro, vestito di grigio, con occhiali da intellettuale e una busta di pelle sotto il braccio.
Don Camillo, che, seduto allo scrittoio del tinello, con un occhio stava leggendo la Gazzetta mentre, con l’altro, spiava la finestra, strinse i pugni.
«Avanti!» disse con malgarbo non appena sentì bussare. Il giovanotto entrò, salutò e porse a don Camillo una busta.
«Non posso comprare niente» borbottò don Camillo senza nemmeno alzare il capo dal giornale.
«Non ho niente da vendere» rispose l’altro. «Sono don Francesco, il coadiutore che la Curia le ha assegnato, e questa è la lettera di presentazione».
Don Camillo lo squadrò: «Vedendola così vestito, giovanotto, l’avevo scambiata per uno dei
soliti rappresentanti di commercio. Considerando che lei doveva presentarsi a un vecchio parroco, forse sarebbe stato meglio se si fosse travestito da prete».
In quell’impietoso «Non posso comprare niente» Giovannino Guareschi aveva racchiuso il senso della crisi che stava per travolgere il mondo cattolico. Correva l’anno di Grazia 1966: il Concilio Vaticano II era terminato da pochi mesi e non era ancora tempo di trattati, di disamine, di ricostruzioni storiche controcorrente. L’umorismo guareschiano riassumeva con quella battuta posta all’inizio di Don Camillo e don Chichìil dissidio evidente tra due modi di intendere la fede.
Che cosa aveva da spartire il vecchio don Camillo con quel don Francesco detto Chichì nuovo fiammante, spedito dalla Curia per spiegargli come qualmente avrebbe dovuto aggiornare il suo calendario liturgico e dottrinale? Poco o nulla. Forse, neanche la compenetrazione con il miracolo che si ripete a ogni messa nella consacrazione. Il sospetto è più che giustificato se, a un certo punto, il vecchio parroco è costretto a spiegare al giovane curato: «Pericoloso dire pane al pane e vino al vino là dove il pane e il vino sono la carne e il sangue di Gesù!».
Quando la realtà supera la fantasia
Roba da romanzo, si dirà. Gusto per il paradosso buono per cervelli messi un po’ di sbieco e abituati a guardare indietro. Magari sarà così. Ma, letta oggi, questa roba da romanzo si mostra tanto verosimile da lasciare al palo anche le più cervellotiche indagini sociologiche.
In ogni caso, non è roba da romanzo quanto racconta una signora avviata onorevolmente verso l’ottantina, catechista fin da ragazza, quando confida lo smarrimento provato davanti alle vie nuove percorse della cosiddetta pastorale giovanile negli anni ’70 e ’80: «A un certo punto ho capito di non essere più capace di insegnare il catechismo. Non erano più le stesse cose che avevo imparato e che avevo insegnato a mia volta. Era diventato tutto complicato e, quando parlavo, i ragazzi ridevano». E non è roba da romanzo il sacerdote che telefona sconsolato perché alcuni confratelli nascondono il Crocifisso per non farglielo mettere sull’altare durante la messa e lui è costretto a chiedersi se credono nello stesso Dio. E neppure l’altro sacerdote sconcertato davanti alla mamma che, presentatasi alla co- munione, prende l’ostia, la spezza in due e ne dà metà al bambino di tre anni il quale corre per la chiesa inseguito dal sacerdote. Come se non bastasse, quando il parroco viene informato dell’accaduto fornisce subito la soluzione che va per la maggiore in questi tempi di pedagogia della chiacchiera: «Farò un paio di catechesi».
Qui si tocca con mano il realissimo dramma del mondo cattolico contemporaneo che, aprendosi al mondo nell’illusione di convertirlo, ha finito per assumerne persino i tic intellettuali più grotteschi. Ormai, sono rimasti in pochi a pensare che, per educare alla fede, prima di un paio di catechesi che invecchiano alla velocità vertiginosa con cui tramontano gli intellettuali che le hanno pensate, servono esempi di uomini che credono. Così come, per educare all’obbedienza, servono esempi di uomini che obbediscono. Ma, se ci si guarda attorno oggi, la Chiesa offre il panorama di fedeli che non obbediscono ai curati, di curati che non obbediscono ai parroci, di parroci che non obbediscono ai vescovi, di vescovi che non obbediscono al Papa. E per quanto riguarda la dottrina, di conseguenza, liberi tutti.
Chi di Verdone ferisce di Verdone perisce
Come capita regolarmente, anche riguardo alla crisi che attanaglia la Chiesa, sono i dettagli a dare il vero senso delle proporzioni. Tra i più significativi, c’è il dibattito esploso sui media italiani nel gennaio del 2010 sul tema “Cattolicità e/o anticattolicità di Io, loro e Lara”. Una diatriba che ha visto in prima linea l’intellettualità cattolica al fine di sviscerare l’intimo significato del film in cui Carlo Verdone racconta la storia di un sacerdote in difficoltà. La diocesi di Brescia ha persino organizzato una visione per quelli che ora va di moda chiamare presbiteri: quasi che le teste pensanti degli uffici pastorali preposti avessero scoperto la crisi del sacerdozio andando al cinema.
Se proprio fosse stato necessario andare al cinema per lanciare l’allarme, lo si sarebbe dovuto fare trent’anni prima, con il Verdone di Un sacco bello. In un passo memorabile di quella inossidabile commedia, il signor Mario Brega, un pezzo di marcantonio comunista fino al midollo, proprio non riesce a ingoiare il rospo di un figlio che se ne è andato in una comunità hippie. E, allora, organizza una riunione dove il giovanotto, interpretato da Verdone, si misura con don Alfio, sempre interpretato da Verdone. «Don Alfio è qui perché te voleva conoscere mejo, perché è un grosso studioso di morale, un grosso filosofo… Aho, è un òmo de Chiesa con du cosi così». Ma la rimpatriata non va come il padre comunista vorrebbe. Il sacerdote perde posizioni su posizioni finendo per simpatizzare con il giovane figlio dei fiori. La misura della tragedia, però, arriva con il fervorino finale di don Alfio: «Cari ragazzi, se lo volete capire lo capite… Se no io mi alzo e me ne vado a lavarmi le mani come quando Pilato si alzò davanti a…» e qui schiocca stizzosamente le dita perché non gli viene il nome dell’altro personaggio. Tanto che deve intervenire il comunistone dal petto villoso, che urlando mostra tutta la sua disperazione: «A Nostro Signore!!! […] manco le basi del mestiere ricordi, Alfio».
Una gioiosa macchina da guerra formata per la sconfitta
Bastava questo quarto d’ora datato 1980 per rendersi conto dei danni prodotti dai maestrini intenti a costruire una nuova Chiesa. Verdone, ammesso che sia lui lo studioso più accreditato della crisi del mondo cattolico, lo aveva detto a suo modo mettendo in scena quel “rahnerino” di don Alfio. Rahnerino nel senso di piccolo Rahner, venerato nume tutelare dei novatori che ebbero la meglio durante il Concilio, vero e proprio doctor communis del cattolicesimo contemporaneo. In un quarto d’ora, don Alfio mostra tutta la tragedia di un cattolicesimo che ha mutato secoli di metafisica in povera antropologia. Cosicché, davanti alle bizzarrie di un figlio dei fiori, non può che assentire. E non potrebbe fare altrimenti, visto che è impasticcato della teoria dei «cristiani anonimi» con cui Rahner annuncia la salvezza di chiunque, anche del più ateo degli atei, purché lo sia in modo autentico.
È chiaro che, con una simile attrezzatura, per un sacerdote uscito dal seminario dopo il Con-cilio, diventa difficile entrare nell’agone e difendere la dottrina cattolica. E il povero padre comunista può obiettare fin che vuole, ma don Alfio ha pronto il suo mantra: «Vedi Mario, dipende da quale angolatura noi valutiamo queste cose. Perché la Chiesa di oggi…». Però Mario, a questo punto, brucia tutti in volata: «Sì, de oggi, de domani, de dopodomani… Qui ve siete tutti… E, se va avanti così, pure lei padre finisce che…».
La censura, quanto mai opportuna, non può comunque nascondere che il compagno Brega, a suo modo, fu quello che in linguaggio conciliare si definirebbe un profeta.
Qualche sasso nello stagno
Nonostante l’evidenza della crisi, per interi decenni non vi è stato spazio per voci critiche. Non che le difficoltà non fossero avvertite, perché a tutto c’è un limite. Ma, se proprio si doveva trovare una causa, si imputava l’origine di tutti i mali alla mancata applicazione del Concilio o, quanto meno, all’annacquamento della sua carica innovativa: in una parola, al tradimento.
Chiunque si fosse levato per dire il contrario veniva bollato con il marchio dell’infamia o almeno della bizzarria. Monsignor Marcel Lefebvre e la Fraternità Sacerdotale San Pio X erano degli scismatici. Romano Amerio un eccentrico pensatore svizzero che si dilettava in opere dal linguaggio desueto come Iota unum. Padre Cornelio Fabro un filosofo e teologo tanto fuori dal tempo da voler recuperare il tomismo integrale. Don Divo Barsotti un mistico, e si sa che i mistici non vanno presi sempre alla lettera. Padre Pio un contadino ignorante legato a una spiritualità sorpassata. E via di questo passo riducendo tutto, in mancanza di argomenti, all’accusa di lefebvrismo. Un marchio che ha subìto un’evoluzione e oggi assolve due funzioni. Oltre a quella classica di bollare un pensiero difforme dalla vulgata conciliare, ora costituisce un recinto dentro il quale, se proprio qualcuno non ce la fa a stare zitto e vuol dire la sua, viene invitato ad accomodarsi. Lì dentro, può dire tutto quello che vuole.
Recentemente, però, questa situazione è stata turbata dai sassi lanciati nello stagno da autori non riconducibili al marchio lefebvriano. In particolare, il teologo monsignor Brunero Gherardini e lo storico Roberto de Mattei. Ai quali va aggiunto il caso di Cristina Siccardi, che ha scoperto la figura di monsignor Lefebvre occupandosi di papa Paolo VI e ha finito per scrivere una biografia da cui il cosiddetto vescovo ribelle risulta molto meno ribelle e molto più cattolico di tanti confratelli.
Un problema che va affrontato
Va inoltre segnalato il lavoro paziente, intelligente e prezioso di un istituto giovane e coraggioso come quello dei Francescani dell’Immacolata. Nel dicembre 2010, il loro Se-minario Teologico “Immacolata Mediatrice” ha realizzato a Roma il convegno Il Vaticano II: un concilio pastorale. Parlando di questa iniziativa, padre Serafino Maria Lanzetta, che nell’organizzazione, sostenuto da confratelli e consorelle, ha messo cuore, testa e preghiera, ha spiegato: «Fino a poco tempo fa, il solo pensare di potersi porre in modo critico dinanzi al Vaticano II, appariva come una cripto-eresia per la coltre di silenzio che necessariamente doveva regnare, ammantandolo solo di lodi. Eppure, dopo quarant’anni e più, siamo dinanzi a un dato innegabile: la Chiesa si è lentamente e progressivamente secolarizzata. Il Vaticano II è un problema? Sì, nel senso che le radici dell’estro postconciliare non sono solo nel postconcilio. Il postconcilio non dà ragione di sé. Per amore della Chiesa e per il futuro della fede nel mondo, bisogna esaminare la radice del problema».
Quel “sì” che profuma di delicata umiltà è stata la cifra di giornate in cui sono intervenuti, tra gli altri, relatori come Brunero Gherardini, Roberto de Mattei, il filosofo Ignacio Andereggen, il liturgista Nicola Bux, i vescovi Atanasio Schneider e Luigi Negri.
Gherardini e de Mattei, in particolare, hanno indicato nel metodo e nel merito la novità di un approccio in grado finalmente di misurarsi con la vulgata progressista sul Concilio. Il teologo ha mostrato come il tema del Vaticano II vada affrontato su quattro livelli. Il primo lo vede come legittima assise ecumenica della Chiesa cattolica, il secondo ne mette in evidenza il carattere pastorale e non dogmatico, il terzo lo pone su un piano di infallibilità là dove si appella chiaramente ai dogmi precedenti, il quarto prende atto della problematicità di innovazioni che, considerate autonomamente, non paiono riconducibili alla dottrina tradizionale.
Un metodo chiaro che trova rispondenza nella lettura storiografica di de Mattei, grazie alla quale esce di scena la zuccherosa immagine di un’assise unanime tesa alla costruzione di una nuova Chiesa, più bella e confortevole, forgiata nel tepore della nuova Pentecoste. Se un insospettabile Paolo VI gridò che invece della primavera profetizzata dalle sirene progressiste era arrivata la tempesta, se parlò del fumo di Satana penetrato nel tempio di Dio, bisogna avere il coraggio di cercarne la cause anche nel triennio 1962-1965, che non può essere considerato l’unico periodo immacolato nella storia della Chiesa. Si ha il dovere di capire cosa avvenne e cosa non funzionò, consapevoli di dover scavare anche nella filosofia e nella teologia dei decenni precedenti.
Continuità e rottura
In tale quadro assume un peso notevole il concetto di «ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità» invocato nell’interpretazione dei testi conciliari dal neoeletto papa Benedetto XVI durante il Discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005 e contrapposto a un’ermeneutica «della rottura». Un concetto che, se ben analizzato, lungi dal chiudere la questione, la apre e sprona all’approfondimento. Innanzitutto poiché, contrapponendo un’«ermeneutica della riforma, del rinnovamento nella continuità» a un’ermeneutica «della rottura», si mette automaticamente a tema l’ambiguità di documenti a cui è possibile applicare due interpretazioni opposte. Inoltre, dovendo la “continuità” essere intrinseca ed evidente nei documenti magisteriali della Chiesa cattolica, evocarla quale criterio ermeneutico induce a supporre che in tali documenti non sia sempre rintracciabile e la si debba iniettare dall’esterno. Infine, l’accento posto sull’ermeneutica invece che sull’applicazione dei documenti, quasi mezzo secolo dopo la chiusura di un Concilio, lascia supporre che la “continuità” non sia un dato di fatto dimostrato a priori una volta per tutte.
Klaus Dibiasi e la Balena bianca
A questo approccio all’“ermeneutica del rinnovamento nella continuità”, che volentieri si può definire “largo”, se ne contrappone uno che si potrebbe definire “stretto”, anzi “strettissimo”. La lettura “strettissima” è stata presa in carico da ambienti che, con un termine derivato dalla politica, possono essere definiti neocentristi e formano una sorta di Balena bianca ecclesiale votata a un conservatorismo invaghito del presente. Secondo la lettura neocentrista, le ragioni della crisi sorgerebbero solo successivamente agli anni del Concilio con l’interpretazione eversiva dei suoi documenti. Per cui, la soluzione consisterebbe nel separare il Concilio dal postconcilio. Una posizione debole poiché, sul piano storico e sul piano dottrinale, studi come quelli di de Mattei e Gherardini mostrano che la fase conciliare e quella postconciliare sono intimamente saldate con quella che precedette il Concilio.
È vero che la storia, a differenza della natura, qualche salto lo può anche fare, ma se il problema fosse nato solo il giorno dopo la chiusura dell’assise vaticana, ci troveremmo davanti a un salto mortale carpiato e avvitato degno di un Klaus Dibiasi. Il quale non è un padre conciliare di ascendenze renane, ma un campione olimpico di tuffi in auge negli anni del Concilio e del postconcilio. Ora, è evidente a tutti che l’eccellente Klaus, per esibirsi in quei salti così complicati, ha dovuto prepararsi a lungo da giovinetto. Prima del Concilio, diciamo.
Le virgolette al loro posto
Poiché l’evidenza può essere fastidiosa, chi la esibisce deve prepararsi agli attacchi e, spesso, anche a vere e proprie aggressioni. Ne sanno qualche cosa monsignor Gherardini e de Mattei i quali si sono trovati, contemporaneamente, sotto il fuoco di fila dei progressisti e dei neocentristi. Fenomeno decisamente bizzarro, se si pensa che i due schieramenti hanno utilizzato le medesime argo-mentazioni: gli uni in nome della “rottura” e gli altri in nome della “continuità”. Epifania ecclesiale di quello che certi scienziati della politica chiamano “monopartitismo imperfetto”, un sistema in cui maggioranza e opposizione si distinguono solo su temi secondari e si alleano per combattere qualsiasi forma di pensiero non omologato.
Questa singolare evidenza induce a pensare che, più che un contenuto, molti intendano difendere un contenitore, un marchio. La dimostrazione sta in un piccolo esperimento che, come autori di Io speriamo che resto cattolico, ci prendemmo la libertà di compiere nel 2007. In alcune pagine di quel volumetto, riportammo dei testi conciliari senza citarne la fonte e togliendo le virgolette. Li mettemmo in bocca a personaggi verosimili, tipici stereotipi del progressismo cattolico, e rimanemmo in disparte a osservare le reazioni. Quelli furono i passi additati all’unanimità dai lettori come la chiara dimostrazione di una crisi conclamata e non più tollerabile. Tranne i progressisti, lo dissero tutti, neocentristi compresi. Ma se ora rimettessimo le virgolette che reazione susciteremmo?
Proprio in considerazione della ovvia risposta a questa domanda, anzi, nonostante l’ovvia risposta a questa domanda, pare proprio che sia giunto il momento di rimettere le virgolette al loro posto.
Salvare il seme
Il capoverso precedente sarebbe stato la na- turale chiusura di questa introduzione, se non fosse che il sottotitolo del libro recita «Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà». Quel «Perché si risveglierà» può avere molteplici spiegazioni, di cui la prima sta nel fatto che il Capo della Chiesa è Nostro Signore. Una certezza consolante che può trovare forma nella sublime prevedibilità delle fiabe, nella cadenza celeste di queste storie inclinate al lieto fine, alla regola dell’epilogo luminoso a cui non sfugge la Bella Addormentata, delicata metafora dell’evangelico «non praevalebunt».
In tale luce, tutto ciò che possono fare degli ordinari cattolici è non perdere la fede. È quanto il Cristo crocifisso raccomanda di fare al vecchio parroco sconcertato dalla follia moderna in una splendida pagina di Don Camillo e don Chichì:
«Ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme. Quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà, e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza. Bisogna salvare il seme: la fede. Don Camillo, bisogna aiutare chi possiede ancora la fede a mantenerla intatta. Il deserto spirituale si estende ogni giorno di più; ogni giorno nuove
anime inaridiscono perché abbandonate dalla fede. Ogni giorno di più uomini di molte parole e di nessuna fede distruggono il patrimonio spirituale e la fede degli altri. Uomini d’ognirazza, d’ogni estrazione, d’ogni cultura».
«Signore» domandò don Camillo «volete dire che il demonio è diventato tanto astuto che riesce, talvolta, a travestirsi perfino da prete?».
«Don Camillo!» lo rimproverò sorridendo il Cristo. «Sono appena uscito dai guai del Concilio, vuoi mettermi tu in nuovi guai?».
In realtà erano ben altri i guai che paventava Guareschi in questa pagina. Erano i guasti prodotti dalle legioni dei tanti don Chichì invaghiti del sogno di trasformare la terra in un nuovo Paradiso. Ma la Chiesa è più coriacea di certi sogni. Si risveglierà.
3 ottobre 2011