12 maggio, festa della mamma. Depurata dalle prevalenti connotazioni commerciali e sfrondata dalla retorica sentimentale, la giornata dovrebbe essere ogni anno l’occasione per riflettere sul ruolo delle madri nella società occidentale. Iniziamo dalla Bibbia del politicamente corretto, Wikipedia, bignami del ministero globale della sottocultura, l’enciclopedia della rete proposta da Google, porta dell’infinito virtuale, come base per qualunque ricerca online. Così recita la definizione: “la festa della mamma è una ricorrenza civile in alcuni paesi del mondo, celebrata in onore della figura della madre, della maternità e dell’influenza sociale delle madri.” Melassa in dosi industriali per nascondere il formidabile attacco sferrato del neo femminismo, appoggiato dalle agenzie del politicamente corretto e da precisi interessi industriali alla maternità, quindi alla natura stessa della donna.
Proponiamo di cambiare nome alla ricorrenza, celebrando non l’obsoleta figura della mamma, simbolo di cura, dedizione, altruismo, frutto della società sessista ed eteropatriarcale, ma quella dell’emancipata “cittadina riproduttrice”. Tra pochi anni, a maggior vanto delle magnifiche sorti e progressive della post-umanità, sarà finalmente sostituita dalle macchine per la gestazione artificiale.
È urgente abolire la mamma per non offendere le modaiole signore “child-free”, che rifiutano la maternità in nome della libertà soggettiva, del successo e di tante altre meraviglie offerte dal Dio Mercato. Poi occorrerà propiziare una giornata dedicata alla glorificazione dell’aborto, poiché la figura materna è la bestia nera del femminismo ultimo, che considera la maternità la maledizione massima. Per il neo femminismo, il vero sacramento è l’aborto come diritto indiscutibile non soggetto a limitazione alcuna.
Le madri, in effetti, sono tali per non aver praticato quella che nel linguaggio ufficiale si chiama interruzione volontaria di gravidanza. Avvertiva Heidegger che la lingua è già pensiero e giudizio: l’elegante circonlocuzione depotenzia il senso negativo che il termine aborto ebbe per millenni. L’acronimo AVO, utilizzato nelle circolari e nel gergo sanitario, fa il resto. Forse dobbiamo chiedere scusa per essere nati e aver invaso per nove mesi il corpo di nostra madre, la cittadina riproduttrice.
La festa della mamma cela una pseudo verità portata alla luce dalla vulgata officiata dalle università americane, luogo privilegiato del trapianto liberal-marxista escogitato a Francoforte. Le donne sono state un esercito di idiote per millenni, accettando il ruolo di madri. Donne non si nasce, asserisce il Verbo, ma si diventa per accettazione coatta di una rappresentazione, il gioco di ruolo predisposto dalla società eteropatriarcale. La maternità, destino imposto con la forza, non è altro che schiavitù il cui scopo è la riproduzione del corpo sociale.
È evidente che il neo femminismo rancoroso usurpa la rappresentanza delle donne quanto il marxismo si arrogava la rappresentanza esclusiva degli operai. I due “ismi” camminano insieme, mossi dal radicalismo liberal padrone della narrazione che impronta il senso comune. Ne sono prova alcuni eventi legati da un unico filo di disgregazione. La scrittrice, filosofa, critica d’arte e femminista americana Camille Paglia è attaccata nell’università in cui insegna per aver modificato alcune sue posizioni. Chi la contesta esige che sia sostituita non da una accademica più valente, ma da una “persona queer di colore”. Nuovi sconcertanti razzismi.
L’assessorato all’economia sostenibile della regione spagnola di Valencia – sostenibile è la maschera politicamente corretta per mantenere lo sfruttamento del pianeta – su richiesta di un organo istituzionale, la Segreteria di Inclusione e Uguaglianza, ha preteso spiegazioni a una catena commerciale su una campagna pubblicitaria, che, a giudizio della psicopolizia locale a guardia di pensieri, parole, opere e omissioni, contiene “infrazioni alle norme di protezione delle persone consumatrici”. Il messaggio incriminato “promuove lo stereotipo che induce le donne a compiere la loro funzione di buone madri (tra virgolette, N.d.R.) basato sulla dedizione e la cura al di sopra del resto delle identità che le formano”.
Il linguaggio è plumbeo, burocratico, contorto e post sovietico, petulante e protettivo il tono a difesa, udite udite, “delle persone consumatrici”. Non li chiamano consumatori per timore di usare un sostantivo maschile. Sessismo alla rovescia di occhiuti apparatchik alla paella, vigilanti dell’uguaglianza e dell’inclusione, unici a sapere che cosa è bene, quali gesti deve compiere una donna per essere una madre, escluse la cura e la dedizione ai figli, fastidiosi retaggi di un infame passato.
Orfani di rivoluzioni fallite, hanno conquistato lo spazio istituzionale per invadere le nostre vite, spiegarci come dobbiamo essere, che cosa pensare e quale identità personale e collettiva è buona o cattiva. La condizione di madri dedite con tutte se stesse all’educazione dei figli è posta all’indice. Molto meglio che i figli, se proprio devono nascere, siano lasciati a se stessi o consegnati a strutture burocratiche in nome, guarda un po’, dell’identità ferita della cittadina riproduttrice.
Pronipoti sciocchi della rivoluzione francese, un po’ marxisti e molto sessantottini, i burocrati del Bene pretendono di convertire lo Stato in vicario, sostituto ad orario sindacale di tutti i vincoli antropologici naturali, a partire dalla famiglia e dalla funzione materna, cardine del rapporto tra le generazioni.
Poco a poco, sotto l’egida dello Stato sociale e con l’approvazione entusiasta del potere economico, la presenza di questi molestatori dell’anima ha raggiunto non solo lo spazio domestico, ma il significato delle parole, l’espressione della nostra coscienza nei gesti, nei comportamenti, nella direzione dell’esistenza.
La società politica ci vuole solo cittadini, parte di un contratto, la società economica pretende di ridurci a consumatori-lavoratori. A breve, la possibilità della riproduzione artificiale porrà in mano del mercato – e in misura minore delle istituzioni politiche – la vecchia funzione della famiglia, cui è già stata sottratta la missione educativa. Potrà dispiegarsi in tutta la sua potenza la lunga lotta contro la filiazione e i vincoli parentali. Sangue e comunità devono essere estirpati in nome del Mercato, del Soggetto, degli Esperti. L’anti patriarcato egemonico è il segno visibile della battaglia scatenata dal Mercato e dal suo servitore Stato burocratico contro le radici e i legami vitali, ultimo spazio che il potere e la megamacchina del profitto non avevano potuto occupare.
L’agenda dell’emancipazione antropologica dalla funzione materna prevede che ci si rassegni al “lavoro sociale” del parto fino a quando non si riesca a “produrre” animali umani attraverso uteri artificiali. Tuttavia non si tollera più che tale “lavoro sociale, effetto delle servitù biologiche” delle donne sia portato avanti da madri generose dedite ai figli.
Una campagna pubblicitaria che promuove l’immagine di madri piene di cura amorosa attenta contro l’immagine e la prassi della donna liberata promossa dall’alleanza tra il mercato e le agenzie burocratiche di senso ideologizzate. Generosità, virtù tipicamente materna e femminile, è termine che procede dalla stessa radice di genesis, dal greco “gyné”, donna, e fa riferimento all’origine. Sono echi negativi di antiquariato sentimentale. La nuova cittadina riproduttrice, a ciò costretta dai ritardi della tecnica, non deve anteporre la sua identità soggettiva, riformulata come realizzazione individuale all’ identità antropologica del passato, gabbia sociale travestita da destino biologico.
Nel caso di Valencia, la catena commerciale ha prudentemente risposto alle guardiane dell’ortodossia neofemminista affermando l’intento di tributare un omaggio alle madri per il loro contributo alla società. È divenuto rischioso anteporre la maternità all’ideale astratto di cittadinanza. Ciononostante, la cellula di relazione comunitaria che chiamiamo famiglia non si esaurisce nella funzione sociale riproduttiva, né il senso della maternità consiste in un contributo sociale. Il suo senso profondo, che la rende insostituibile, decisiva nella costruzione del presente e del futuro, si radica nell’educazione di persone, esseri umani dotati di senso critico, membri di una comunità dotata di principi posti come riferimento persino quando si decide di trasgredirli. Senza questa funzione capitale, la stessa condizione umana soccombe e svanisce. Attraverso l’atto di generosità racchiuso nel dare alla luce e accompagnare nel mondo i figli, si afferma la vita nella sua continuità non solo biologica.
La giornata della mamma poco importa agli economisti, stregoni postmoderni abituati a misurare tutto in numerario. La funzione di genitori, in particolare quella materna, non incide sul PIL, anzi ne impedisce la crescita, è controproduttiva in termini economici.
Una follia prospettica che fu chiara, mezzo secolo fa, a Robert Kennedy, allorché in un celebre discorso poco prima di essere ucciso (il potere agisce spesso in via preventiva) affermò che il calcolo del prodotto interno lordo “non tiene conto della salute delle nostre famiglie, non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né l’onestà dei rapporti tra noi. In breve, misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
A quanti punti di Pil corrisponde il ruolo delle madri? Nessuno, anzi fa decrescere l’economia, poiché non ha un corrispettivo in denaro. Un economista, Geminello Alvi, fece una riflessione assai significativa evocando l’economia del dono: “solo quando la famiglia smette di essere tale si pagano gli alimenti, altrimenti in essa si dona. Non si dà nessuna comunità di profitto, che ha il nome diverso di società; ma si dà continuità nell’agire non rivolto ad un tornaconto.” Frottole del passato oscuro; meglio affidare i figli a istituzioni esterne pagate per questo, meglio ancora agire sin dall’inizio, se proprio l’orologio biologico non dà pace.
L’utero lo fornisce una donna povera, dalla triste professione di fattrice in conto terzi. Nell’untuoso burocratese si chiama Gestazione per Altri, l’acronimo anonimo è GPA. Gli esperti di marketing preferiscono definirla un atto di generosità, altruismo da donna a donna. Con l’utero artificiale sarà solo questione di prezzo e la produzione potrà avanzare a pieno ritmo, con cataloghi di scelta dei figli da affidare sin dalla nascita ad agenzie di professionisti “esperti”: asili, scuole, centri educativi, luoghi di formazione-indottrinamento per soldatini da addestrare ai ruoli sociali che ricopriranno. Lavoratori (precari) con valigia in mano, consumatori compulsivi, cittadini disciplinati della nuova trinità: Mercato, Tecnologia, Burocrazia.
La maternità, in questa gigantesca operazione di ingegneria, è uno degli ultimi ostacoli da rimuovere. Decostruirla, disgregarla, svalutarla, piegarla a provvisoria funzione zootecnica è il triste compito dell’ultima ondata del femminismo, alleata dei padroni del Mercato. Il primo a indagare la deriva fu Ivan Illich in Genere e sesso, svelando la perdita del “genere” e la sua trasformazione in sessualità. La sua fu la rivendicazione del genere come espressione della “dualità dell’umano che distingue i luoghi, i tempi, gli utensili, i gesti associati agli uomini da quelli associati alle donne, contro il sesso, polarizzazione di tutte le caratteristiche, declinate poi in forma di diritti, che vengono attribuite in modo identico a tutti gli esseri umani. È l’essenza dell’homo oeconomicus che uomini e donne non siano altro che neutri economici”.
Se la logica è la neutralizzazione, distruggere, dopo il padre, anche la figura della madre è impresa culturale e insieme tecnica necessaria all’edificazione della futura post umanità. Un artefice fu Herbert Marcuse, il cui obiettivo era disattivare la comunità attraverso la liberazione degli istinti. Per spezzare l’equilibrio, diventava essenziale mobilitare non il proletariato, ma le donne e i dannati della terra. “L’educazione delle coscienze nella scuola è il migliore strumento per giustificare moralmente il conflitto decisivo” (L’uomo a una dimensione).
Difendere con ogni mezzo la maternità, il ruolo della madre, la sua natura di catena di trasmissione della vita e dei principi comuni attraverso l’amore, la cura, la generosità, la gratuità tanto odiata dalla società di mercato, è la trincea decisiva per bloccare la deriva che ci avvolge da almeno mezzo secolo e ricomporre i frammenti sparsi di comunità spezzate, lapilli incandescenti di un’eruzione che non minaccia più un modello di società, ma la sopravvivenza stessa dell’umanità come si è andata formando nel cammino delle civiltà che ha generato.
Il mondo degli orfani di padre conduce all’anomia, l’assenza della norma descritta da Durkheim. Quello degli orfani di madre è semplicemente impossibile, invivibile, disumano. Oltre le feste, i fiori e le frasi di circostanza, abbasso la cittadina riproduttrice e viva la mamma, genitrice e maestra, custode e ultima garante di un futuro degno della specie umana.
3 commenti su “12 maggio, Festa della Cittadina Riproduttrice”
Lo sa, caro Pecchioli, che quando ho letto “…considera la maternità la maledizione massima” mi è venuto quasi da piangere? Sarà l’età, sarà che sono mamma e plurinonna, ma come si fa, dico, a rifiutare e a disconoscere il privilegio così unico che il Padreterno ha donato a noi donne per collaborare e dire sì al suo progetto più grande, cioè fare qualcuno a Sua immagine e somiglianza? E poi dicono che Lui non si offende, non può offendersi, ma come non offenderLo negandoGli questo diritto? E come non addolorare la Sua Santissima Madre, cioè Colei da cui ogni donna dovrebbe prendere esempio? Pensiamo mai al grande sì della Madonna, al Suo rimettersi alla volontà di Dio, alla sua vita tutta dedita alla famiglia? La Madonna cucinava, lavava, aveva cura della casa, sudava, si stancava, faticava come tutte le madri, ma tutto faceva per amor di Dio e gioiva perché Dio lo aveva in casa. E se anche noi facessimo le madri imitando Lei, anche noi avremmo il Signore in casa e stringendo al cuore i nostri figli, stringeremmo Lui. Ma questo, purtroppo, nessuno ce lo dice più.
Ho recentemente raccolto lo sfogo di una signora, nata in pieno ’68, per aver essere stata esposta, costretta per motivi familiari a presenziare a una Messa di sempre, alla disturbante visione di (più di) una madre con cinque figli. I commenti andavano da “mi fa pena” a “non ha mai visto altro” “una bella ragazza rovinata” “qualcuno dovrebbe dirle che esistono gli anticoncezionali” fino all'”animalesco”, e “una settimana di shopping in città e vedi come molla marito e figli”. Cotanta espressione di “apertura mentale” mi ha gettata nello sconforto più totale. Che gabbia ci hanno cucito addosso, quali iniezioni di egoismo velenoso, per generare tanto astio, perché di astio si tratta? O è piuttosto malcelata invidia, l’invidia della scimmia, copia sottosopra della donna a immagine di Maria? Avere figli “non usa più”, e tanto basta, non si fa. Alla faccia dell’apertura mentale.
Che poi non mi hanno ancora spiegato perché le donne, superiori per natura, si sono fatte sottomettere per millenni. Il femminismo che ha “liberato” la donna dalla negazione dell’espressione massima di autodeterminazione, il lavoro, è nato nei salotti borghesi da donne che non avevano mai alzato un giorno di lavoro in vita loro, mica dalle contadine, dalle sarte, dalle lavandaie, dalle operaie, che di lavorare avrebbero sicuramente volentieri fatto a meno. Le donne borghesi che non DOVEVANO lavorare erano delle privilegiate (peraltro, in quella classe sociale, anche gli uomini potendo evitavano scaltramente di lavorare), ma le 68ttine non se ne sono accorte. Hanno messo loro in mano cartelloni e reggiseni da bruciare e hanno aperto le gabbie, e quelle hanno sguaiatamente eseguito. Una bella fortuna che proprio in quel momento storico nascessero tanti nuovi posti di lavoro vacanti e pronti ad accoglierle, una curiosa coincidenza.